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 Le delicate vivande del re

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MessaggioLe delicate vivande del re

Le delicate vivande del re
Le delicate vivande del re Presen10
André Gibert

Il Messaggero Cristiano, marzo 1981

Daniele e i suoi compagni erano adolescenti (letteral­mente «bambini») quando furono deportati a Babilonia. Avrebbero potuto dire di portare la pena di peccati di cui non erano responsabili; ma si eseguiva la sentenza pro­nunciata a Ezechia un secolo prima: «Dei tuoi figliuoli... ne saranno presi per farne degli eunuchi nel palazzo del re di Babilonia (2 Re 20:18).

Li colpivano i castighi dei quali Geremia, da tredici anni, invano avvertiva il popolo e i suoi capi.

Questi ragazzi accettarono senza reagire l'umiliazione della loro nazione; riconoscevano l'autorità del re che l'a­veva soggiogata, spogliando il tempio, deportando ostag­gi e prigionieri. Non protestarono quando i loro nomi ven­nero cambiati con nomi di falsi dei babilonesi e accetta­rono di dedicarsi agli studi loro imposti per meglio servire il monarca delle nazioni.

I savi di questo mondo direbbero: Ecco dei bravi oppor­tunisti che non tengono conto né della loro stirpe regale né della loro patria, e fanno bene! Gerusalemme e il suo tempio sono lontani; tutto è finito per Israele. Molto me­glio è approffittare delle disposizioni favorevoli del re e fondersi col popolo Caldeo!

Invece, c'è un punto sul quale essi rifiutarono quello che il re assegnò loro. «Daniele prese in cuor suo la riso­luzione di non contaminarsi con le vivande del re e col vino che il re beveva» (1:Cool. E non fu una risoluzione se­greta a cui Daniele si conformava clandestinamente, senza compromettersi. Egli «chiese al capo degli eunuchi di non obbligarlo a contaminarsi» (v. Cool.

Anche qui la saggezza umana direbbe: È un piccolo dettaglio, un segno d'originalità, un'abitudine d'infanzia, forse, o un ultimo slancio di sentimento nazionale.

Al contrario, quello era un punto capitale e rivelava la vera posizione morale di Daniele, condivisa anche dai suoi tre amici. Dio manifestò subito di approvarla e incli­nò il cuore dei loro capi e coronò di successo il loro esperimento. Se quei ragazzi rispettarono la legge nella quale erano stati istruiti a Gerusalemme non fu per sem­plice formalismo. La risoluzione presa nel cuore impegnò la loro vita profondamente, come dimostreranno più tardi in modo insigne (cap. 3 e 6).
La loro decisione dimostra, in primo luogo, ch'essi ri­conoscevano un'autorità superiore a quella del re di Babilonia e dei suoi dei. Il capo degli eunuchi temeva il re suo signore (v. 10), ma loro temevano Colui che Daniele chiamerà poco dopo, davanti al re stesso, «l'Iddio dei cieli». I tre ebrei non si prostreranno mai davanti alla statua d'oro, e Daniele, diventato vecchio, pregherà sempre con le finestre aperte dal lato di Ge­rusalemme, malgrado l'ordine di pregare soltanto il re. Dio solo deve essere temuto e onorato. «Temerai l'E­terno, l'Iddio tuo, lo servirai...» (Deut. 6:13).
L'Iddio ch'essi temono è un Dio santo, che non tollera la contaminazione. Non vuole che i suoi servitori porti­no alla bocca cibi consacrati agli idoli. Non vuole che trasgrediscano gli ordini dati dalla sua legge sui cibi puri e impuri. «Io sono l'Eterno, l'Iddio vostro; santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo» (Lev. 11:44-45).
La loro ubbidienza è quella della fede. Non c'e niente di servile. Alla fede piace fare ciò che piace a Dio. Così farà l'Uomo perfetto dicendo: «Il mio cibo e di far la volontà di Colui che mi ha mandato, e di compiere l'opera sua» (Giov. 4:34).

Anche i fedeli Israeliti del Residuo, nella sofferenza, diranno: «Oh, quanto amo la tua legge!... e mi diletterò nei tuoi comandamenti, i quali io amo» (Salmo 119:97, 47).

Le inclinazioni della natura umana non contano; Da­niele rifiuta un nutrimento delizioso. Perché accettarlo come un favore, un vantaggio insperato per dei prigio­nieri? Cosa sono questi vantaggi rispetto alle delizie di fare la volontà di Dio?
Per agire così, bisognava che quei ragazzi fossero convinti che Dio non dimenticava il suo popolo, anche se lo castigava. L'asservimento alle nazioni non sa­rebbe durato sempre; la deportazione di Babilonia fini­rà. Non sappiamo se conoscevano la profezia pronun­ciata da Geremia l'anno stesso del loro esilio, sui set­tant'anni di questa cattività; solo sessantanove anni più tardi Daniele la capi «meditando sui libri» (9:1-2; Geremia 25:1-11). Però conoscevano certamente i li­bri di Mosè, di Osea, Amos, Isaia, Michea, e le pro­messe antiche e recenti. Per loro, sottomettersi a Ne­bucadnetsar era sottomettersi a Dio che faceva gra­vare la sua mano sul popolo colpevole. Ma ci sarebbe stata liberazione. Lo stesso Residuo fedele, che trova le sue delizie nella legge di Dio, dice e ripete: «Fino a quando?»
Non essendosi contaminati, avendo rifiutato i più sedu­centi cibi di Babilonia, questi giovani Ebrei furono pronti a servire ai piani di Dio. Lo faranno nel posto dove Dio li ha messi, come servi coscienziosi di questa monarchia delle nazioni stabilita da Lui, ma testimoniando dei diritti di Dio e facendoli riconoscere al momento opportuno (2:47; 3:28; 4:37; 6:25-27). Essi ricevettero da Dio più saggezza e intelligenza dei loro colleghi; ma soprattutto, essi soli ebbero l'intelligenza delle «cose profonde e occulte» che solo l'Iddio dei cieli rivela (2:22, 28). Non avrebbero avu­to quest'intelligenza se si fossero associati all'impurità. «Il segreto dell'Eterno è per quelli che lo temono» (Salmo 25:14).
Così, Daniele e i suoi compagni conservarono il loro carattere di stranieri a Babilonia, in modo da essere, in questa città, validamente presenti e operanti. Proprio perché erano testimoni di Dio poterono, come Dio diceva, cercare «il bene della città dove io v'ho fatti menare in cattività» (Geremia 29:7).
Vi sono poche lezioni più utili di questa; non che la no­stra situazione sia identica alla loro; essi ubbidivano a Dio come Giudei sotto la legge, mentre Cristo ci ha mes­si nella libertà. Di fronte al mondo anche noi siamo stranieri, però non perché la Chiesa è schiava come lo era il popolo giudeo; non potrebbe esserlo in quanto è celeste, e il nostro diritto di cittadinanza è nel cielo. Noi portiamo quaggiù il nome di un Sovrano respinto dal mondo ma che, ben lontano da essere vinto, è un vincitore glorifica­to nel cielo e che presto regnerà sulla terra. Noi non ab­biamo da appendere le nostre cetre ai salici dei fiumi di Babilonia e da rifiutarci di cantare i canti di Sion su una terra straniera (Salmo 137). Anzi, fin da quaggiù inco­mincia l'inno che canteremo nel cielo!

È pur vero che la nostra mancanza di fedeltà ha attira­to il giudizio sulla casa di Dio, su questa cristianità che ha profanato il vero cristianesimo; ma le porte dell'ades non potranno vincere la Chiesa del Signore.

È anche vero che noi viviamo nel «tempo delle nazioni» (Luca 21:24) che va da Nebucadnetsar fino al ritorno del Signore per prendere la Chiesa, ma né la nostra spe­ranza né la nostra condizione sono quelle di un Israele schiavo. Cristo aspetta che i suoi nemici gli siano sotto­messi; verrà a prenderci e noi saremo manifestati con Lui in gloria. Nel frattempo, Satana, benché vinto alla croce, domina oggi nel mondo da usurpatore.

Tutto ciò dà alla nostra posizione di stranieri dei carat­teri particolari. È come testimoni di Colui che Dio ha fatto «Signore e Cristo» che noi siamo in un mondo votato al giudizio, di cui la distruzione di Babilonia non e che una pallida immagine. Noi dobbiamo sottometterci alle autori­tà stabilite da Dio e lavorare per il bene e la pace, pre­gando per loro e per la conversione delle anime.

Ma, nonostante queste differenze, anche noi dobbiamo, per assolvere al compito che Egli ci ha assegnato quaggiù, prendere la risoluzione, come Daniele, di non conta­minarci con le vivande del re e col vino ch'egli beve. Sono le cose di questo mondo, che portano il suggello del suo capo, Satana, che le dispensa. Rispondono bene alle concupiscenze del cuore e nutrono «la carne». Discer­nerle e respingerle sembra essere sempre più difficile, man mano che lo spirito degli «ultimi giorni» guadagna terreno. Più che mai, i nostri cuori devono essere conqui­stati dalle affezioni celesti e le nostre coscienze essere delicate e sensibili.
Come si comportano i giovani credenti che, simili a Da­niele e ai suoi amici, sono ai loro primi contatti personali col mondo? Devono pur istruirsi per imparare un mestiere: non si può lasciare la mente incolta né le mani senza educazione. Sarebbe farne degli incapaci, incoraggiare il fatalismo, la superstizione. Quello che conta, però, è che tutto sia ricevuto come proveniente da Dio, con ringrazia­mento e in vista di servire Lui, qualunque sia il lavoro che si dovrà fare. «E a tutti questi quattro giovani Iddio dette conoscenza e intelligenza in tutta la letteratura, e sapienza» (v. 17), mentre preparava Daniele alle rivelazioni dall'alto.

I doveri terreni, siano essi famigliari, professionali o ci­vici, offrono sempre al credente l'occasione di onorare il suo Signore, se sono assolti con Lui, per Lui, in preghie­ra e con ringraziamento. Tutto ció che non può essere fatto in comunione col Signore e dandogli il posto che gli spetta, è una «contaminazione». Quanto più lo è tutto ciò che occupa una così larga parte della vita di questo mondo, alla ricerca del piacere, della ricchezza, del pre­stigio personale! Il nome di Dio può trovarsi abbinato a queste cose, ma audacemente adoperato «invano»! Non è qui che il credente pio ha il suo posto, né potrà mai trovarsi a suo agio, anche se imbavagliava la sua co­scienza.

«Noi sappiamo che siam da Dio, e che tutto il mondo giace nel maligno» (1 Giov. 5:19).
Per avere un sano giudizio sulle cose abbiamo bisogno della Parola di Dio, lampada al nostro piede, e della pre­ghiera che ci mette in relazione con Dio. Ma esse sono efficaci solo per mezzo dello Spirito Santo, senza il quale si cade nella routine formalistica. Sarebbe insensato co­stringere uno che non ha la vita di Dio ad astenersi dalle cose del mondo; ma se la vita c'è, deve manifestarsi con la rinuncia «all'empietà e alle mondane concupiscenze» (Tito 2:12).

Per noi il problema non sta nel distinguere tra alimenti materiali (Col. 2:21-22, Rom. 14:14, 1 Cor. 10:25) per­ché non siamo sotto la legge. Ma Cristo è morto «affin­ché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito» (Rom. 8:4). Quello che piace alla carne contri­sta lo Spirito; ma il nutrimento spirituale, cioè Cristo stesso, sprezzato dal «vecchio uomo», fa le delizie del «nuovo»; esso dà salute all'anima del credente, mentre le vivande del re lo ripugnano.

L'ipocrisia del mondo ammette che vi siano dei piaceri che degradano, ma nello stesso tempo propone piaceri grossolani, traendo profitto da letteratura e spettacoli im­morali. Ma, altre cose sono proposte al credente; i sensi, l'immaginazione, i sentimenti, l'intelligenza, sono solleci­tati. L'arte, la scienza, la tecnica, il pensiero politico, più che mezzi di evasione servono per piacere a sé stessi e superare gli altri. Adulato ma volto verso le «vanità bu­giarde» il vecchio uomo crede di elevarsi, ma in realtà si innalza contro Dio. Si sforza di coprire la sua nudità, e di stordirsi per non pensare né alla sofferenza né alla morte né all'al di là ed essere felice senza Dio. Le vivande del re sono offerte dallo stesso tentatore che diceva: «Voi sarete come Dio»!
Alcuni si illudono di poter piegare poco a poco il mon­do al pensiero di Dio; non è compito nostro. Ci vorrà la verga di ferro del Pastore delle nazioni per ottenere, al­meno, una sottomissione apparente. «Noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio»: facciamone una realtà pratica. Rifiuta­re le vivande del re è il segreto per essere il sale della terra e la luce del mondo. La frontiera col mondo sarà sempre «la croce del Signore nostro Gesù Cristo, me­diante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso, e io sono stato crocifisso per il mondo» (Gal. 6:14); essa è tracciata nel cuore secondo il posto che Cristo vi oc­cupa.
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