Pasti di carità Giuda 12
di Roberto Bracco
Una delle più belle manifestazioni della vita cristiana, nella chiesa primitiva, era quella della comunione fraterna e dell’intimità familiare.
Sin dai primi giorni della chiesa i credenti cercarono di vivere realmente come una famiglia sola per realizzare quell’intimità e quell’amore che si trovano soltanto nell’esercizio della vera comunione fraterna. Probabilmente in alcuni casi oltrepassarono i limiti della guida di Dio, ma in linea generale riuscirono a vivere un cristianesimo nel quale l’amore era posto veramente al centro di ogni attività e di ogni sentimento.
In quell’atmosfera di entusiasmo caldo e sincero e di amore puro e profondo furono istituiti i “pasti di carità”, pratica cristiana ricca di benedizioni e apportatrice di esperienze salutari.
L’origine dei “pasti di carità” fu delle più semplici e delle più logiche: i discepoli insegnarono ai nuovi convertiti quelle abitudini che Gesù aveva insegnato loro. Per questo unico motivo i primi cristiani si trovarono, come familiari nella grazia, a “prendere il loro cibo assieme, con letizia e semplicità di cuore” (Atti 2:46).
Nello stesso modo che Gesù aveva raccolto i suoi in una sola famiglia ed aveva vissuto con loro nell’intimità e nell’amore (Giov. 13:1) così i discepoli raccolsero i primi fedeli nei vincoli di una comunione tutta calore e tutta affetto. In Palestina, come d’altronde in ogni nazione, il pasto in comune rappresenta uno degli atti più intimi ed affettuosi ed era logico quindi che i cristiani cercassero in esso quell’appagamento spirituale suggerito o ispirato dall’opera di Dio nella loro vita.
Dalla descrizione del libro degli Atti possiamo dedurre che i primi pasti di carità appartenevano all’iniziativa privata; erano tenuti cioè in conseguenza del fatto che alcuni fedeli invitavano altri fedeli nelle proprie case e attraverso un continuo scambio di visite finivano per stare assieme in tutte quelle ore che le famiglie si trovavano raccolte e perciò finivano per stare assieme anche quando si consumavano i pasti. In seguito però con lo sviluppo della chiesa e con l’organizzazione della vita e dell’attività comunitaria anche i “pasti di carità” passarono sotto il controllo e l’iniziativa della chiesa stessa. Sembra che i primi pasti di carità furono organizzati dalla chiesa e sovvenzionati dalla chiesa esclusivamente per assistere i poveri e le vedove (Atti 6).
Non possiamo escludere però che anche i fedeli di diversa condizione sociale, cioè i fedeli che non si trovavano in stato di povertà partecipassero a queste mense cristiane per godere comunione spirituale ed intimità fraterna. Comunque, negli anni seguenti, i “pasti di carità” entrano a far parte non soltanto della vita cristiana, ma anche del culto cristiano.
La chiesa organizza “pasti in comune” perché questi offrono la possibilità di stringere i credenti nei vincoli d’una familiarità autentica e perché attraverso questi il nome del Signore viene esaltato e glorificato. Anzi, ricordando che il Signor Gesù istituì la Santa Cena trovandosi con i suoi intorno ad una tavola, la chiesa pensa di inserire la celebrazione della Cena del Signore nell’esercizio dei pasti di carità e così, dopo un pasto in comune e alla fine di questo i credenti suggellavano la loro gioia e la loro comunione passando dall’uno all’altro il “calice del Signore” ed il “pane che rammemorava il sacrificio del Signore”.
Possiamo immaginare quale gloriosa benedizione e quale profonda esperienza spirituale scaturivano da una famiglia di credenti riuniti intorno ad una tavola nell’intimità di un pasto in comune, quando il loro scopo non era tanto quello di soddisfare i propri bisogni fisici, quanto quello di lodare Iddio e di prepararsi per partecipare alla Cena del Signore. Ebbene, la chiesa, consapevole di questa benedizione e di questa esperienza, dava a questa pratica cristiana la propria attenzione e la propria cura.
Il metodo usato dalla chiesa per organizzare questi pasti era il metodo della vera comunione fraterna. Veniva scelto un luogo adatto ad ospitare tutti i fedeli e questo luogo diventava in conseguenza della scelta “la casa del Signore”. Qui, ad un’ora precedentemente stabilita, si raccoglievano tutti i credenti per mangiare assieme; ogni fedele, (od ogni famiglia), portava il necessario per il pasto, e tutto veniva messo sulla tavola per uso comune.
Dopo la preghiera, con la quale si rendevano grazie e lodi a Dio per la Sua Provvidenza, s’iniziava il pasto che si effettuava con l’unione e la distribuzione delle vivande; i ricchi ed i poveri potevano godere in uguale misura della benedizione della mensa perché ormai non c’era più il cibo dell’uno o dell’altro, ma c’era il cibo di tutti.
Al termine del pasto e quando l’atmosfera era più calda per una comunione profondamente intima e, soprattutto, altamente spirituale, si concludeva la riunione con la celebrazione della Santa Cena. Quest’atto di culto sembrava ricordare in maniera solenne che Colui che ha salvato la chiesa vive con la chiesa e ritorna per la chiesa; per una chiesa però che è veramente chiesa e che perciò vive congiunta nell’amore e nella comunione.
Naturalmente anche nella pratica dei “pasti di carità” c’erano imperfezioni e infedeltà. La più grande forse era costituita dall’immancabile presenza di falsi cristiani che si univano alla chiesa al solo scopo di banchettare (Giuda 12; 2 Pietro 2:13) e di godere del loro inganno. Un altro frequente inconveniente era costituito dalla presenza di “veri cristiani” colpevoli però di colpe delle quali non si erano pentiti e che erano perciò, a causa della loro vita immorale, motivo di turbamento alla comunione fraterna (1 Cor. 5:11).
Ma il male che certamente contribuì di più a far scomparire questa meravigliosa pratica cristiana insegnata dal Maestro stesso col vivo esempio della sua vita, fu quello della profanazione. I pasti di carità in molte chiese si trasformarono da conviti spirituali in banchetti carnali. I credenti, persa di vista la finalità cristiana dei pasti in comune, incominciarono a vedere in essi soltanto una occasione di godimento terreno e di soddisfazione sociale.
Paolo nella sua prima epistola ai Corinti descrive questa tragica situazione e ci parla di questi cristiani superficiali che si recavano alla casa del Signore soltanto per mangiare e per inebriarsi. Essi mangiavano ancora uniti ad una medesima tavola, ma senza godere più comunione cristiana ed infatti coloro che giungevano primi iniziavano il pasto senza aspettare gli altri, ed i ricchi non dividevano più con i poveri; l’intimità e la familiarità erano soltanto apparenti ed il significato spirituale del pasto di carità era irrimediabilmente compromesso.
Probabilmente da questi inconvenienti incominciò a sorgere l’idea di sospendere i pasti di carità, come forse dai disordini esistenti nelle riunioni di culto, nell’amministrazione dei doni dello Spirito, incominciò a sorgere l’idea di reprimere le manifestazioni divine. E così una gloriosa pratica cristiana fu posta nell’ombra e nell’oblìo ed una benedizione celeste fu rubata alla chiesa.
Ma se è vero che il nostro vivo desiderio è quello di tornare alla verità, a tutta la verità, deve essere nostro proposito tornare anche a questa pratica spirituale che se è stata insegnata dal Signore ed è stata seguita dalla chiesa apostolica, deve essere accettata anche da noi perché possa tornare ad essere benedizione per noi.
Non è difficile servirsi delle scarne notizie della scrittura per ripristinare questa pratica spirituale: in ogni località è possibile disporre di un locale adatto per raccogliere i fedeli; in ogni località è possibile preparare nelle proprie case le vivande necessarie per concorrere alla mensa comune. Una volta al mese, o anche più frequentemente, la chiesa può indire, in un giorno festivo, un pasto in comune che abbia lo scopo preciso di stringere i fedeli nell’intimità di una comunione e di una familiarità che si può realizzare soltanto nelle circostanze offerte da un banchetto squisitamente spirituale.
Non è difficile mantenere l’incontro sopra un livello elevato e puro: è necessario soltanto che gli anziani della chiesa assumano il controllo della suggestiva riunione per guidarla in armonia alla volontà dello Spirito. Non devono mancare cantici, preghiere, conversazione cristiana, esortazioni, insegnamenti e tutto questo può anche concludersi con la celebrazione della Santa Cena presieduta e diretta dall’angelo della chiesa.
Trovarsi come figliuoli di Dio, fratelli nel Signore, uniti nella più simpatica delle intimità conduce immancabilmente alla realizzazione di quella comunione che è garanzia certa di benedizione celeste. Purtroppo, invece, non soltanto i pasti di carità sono stati dimenticati ed aboliti, ma la comunione e l’intimità dei cristiani tende, in questa generazione, ad affievolirsi sempre più accentuatamente e sembra quasi che la conclusione dei rapporti fraterni debba essere in un domani, non lontano, quello della più profonda apatia; estranei e sconosciuti l’uno all’altro potremo giungere ad una separazione egoistica che ucciderà definitivamente l’organicità e l’unità del popolo cristiano.