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 L’uomo giusto e l’uomo devoto

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MessaggioL’uomo giusto e l’uomo devoto

L’uomo giusto e l’uomo devoto
L’uomo giusto e l’uomo devoto Presen10
John Gifford Bellett

Faccio notare, fra l’altro, che vi è differenza, ed anche una differenza essenziale, fra un uomo «giusto» ed un uomo «devoto». Nessuno è devoto se non ha praticato la lezione di uomo morto e risuscitato. Si può affermare che la misura della sua devozione è proporzionale al grado di energia spirituale alla quale è pervenuto, all’influenza che egli esercita sugli altri come uomo morto e risuscitato in Cristo.

All’inizio della sua storia, Giobbe era un uomo giusto. Dio stesso poteva gloriarsi di lui nel cielo in faccia al suo accusatore; ma non era un uomo devoto. Il pensiero dominante del suo cuore, come ho già fatto notare, consisteva in questo: «Morrò nel mio nido». Come peccatore era perdonato e accettato da Dio, e conosceva il suo Redentore vivente e vittorioso (19:25); la sua pietà e la sua dirittura superavano quella dei suoi simili, ma quanto alla potenza che agiva nella sua anima non era un uomo morto e risuscitato.

Era pure il caso di Agur, nel libro dei Proverbi (30:8-9). Egli era pio e di spirito mansueto, e giudicava se stesso. Fa una buona confessione dell’accecamento e della depravazione umana; parla delle glorie insondabili di Dio, della purezza e del valore della sua Parola, della sicurezza della quale godono tutti quelli che confidano in Lui (Proverbi 30:1-9). Era un uomo di Dio e camminava in una buona disposizione d’animo, ma non era un uomo devoto. Non era ammaestrato «ad essere nell’abbondanza e a esser nella penuria» (Filippesi 4:12). Temeva la povertà, nel timore che essendo povero fosse tentato a rubare, e la ricchezza, nel timore che essendo saziato rinnegasse Dio. Non era, più di Giobbe, preparato per le vicissitudini; mentre Paolo lo era. Egli s’era dato a Cristo con una devozione che non aveva pari. Paolo era un uomo morto e risuscitato secondo l’efficacia della potenza che agiva nella sua anima. Egli era disposto ad esser «versato di vaso in vaso»; aveva imparato «ad esser saziato e ad avere fame»; poteva ogni cosa in Cristo che lo fortificava. Considerate la devozione di questo servitore di Dio alla fine del libro degli Atti dal capitolo 20 fino a128. A Mileto è circondato da fratelli che piangono per la sua partenza; a Tiro è in seno a una famiglia cristiana che lo colma di amicizia. Ma si lascia forse trattenere da queste oasi spirituali che sorgono per lui in mezzo al deserto della persecuzione, dove il cuore si formerebbe volentieri dicendo: Piantiamo qui delle tende... (Luca 9:33)? No; neppure là il caro apostolo può fermarsi, essendo il suo cuore ormai interamente di Cristo. «Che fate voi, piangendo e spezzandomi il cuore? Poiché io son pronto non solo ad essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (Atti 21:13). Non volle lasciarsi persuadere. Si congedò dai suoi amici e di là, costeggiando la Siria, giunse a Gerusalemme. In seguito, per lunghi anni, si trovò lontano dai fratelli, esposto a pericoli sul mare e sulla terra, agli insulti e agli oltraggi; ma un cuore semplice, pieno di devozione e d’affetto profondo, lo sostenne nel suo cammino attraverso la cupa valle.

Una buona coscienza da sola non basta per questo; la semplice giustizia non può affrontare un tale viaggio. Occorre che vi sia un attaccamento reale per Cristo, quel principio di devozione che si basa sulla morte e sulla risurrezione con Gesù.

Giobbe era giusto, ma non era preparato ad una tale serie di prove. Amava i luoghi piacevoli e il nido che egli chiamava «il suo nido». Dei cambiamenti sopravvengono; egli li accetta ma non è preparato a sopportarli. Ma Dio, suo celeste Maestro, nell’amore che ha per lui, lo mette alla sua scuola affinché impari la verità di un figlio della risurrezione e partecipi alla sua santità. Si tratta qui di una santità che non corrisponde solamente alla purezza e all’integrità dello spirito dell’uomo, ma che si addice alla chiamata di Dio; la santità di un uomo che realizza quella vita che è nascosta con Cristo in Dio, di un uomo che è straniero e forestiero in questo mondo (Ebrei 11:13) (*).

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(*) Si può essere irreprensibili in questo mondo, avere una vita santa e pura, ma non essere attratti dal cielo. Il credente deve avere lo sguardo intento «alle cose che non si vedono» (2 Corinzi 4:18), deve cercare «le cose di sopra dove Cristo è seduto alla destra di Dio» e avere l’animo a quelle cose (Colossesi 3:1-3). Il suo pellegrinaggio in questo mondo sarà così gioioso e spedito. È bene che rinunciamo alle cose della terra, ma dobbiamo anche afferrare quelle del cielo! (n.d.t.).
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Giobbe fu dunque «provato», affinché fosse reso partecipe di questa santità. Non che le prove e i tormenti siano essenziali per essere istruiti nelle vie del Signore, benché generalmente, nella sua saggezza, il nostro Padre celeste ritenga necessario servirsene. Paolo imparava ogni giorno delle lezioni, senza che avesse bisogno di essere assoggettato alle angosce di mali fisici o alla perdita di beni temporali (Filippesi 3). Egli esercitava con diligenza la disciplina su se stesso. Vi era in lui un continuo esercizio di spirito, e così dovrebbe essere di noi. Dovremmo sempre avere il timore di cadere nello stato della Chiesa di Laodicea (Apocalisse 3:14-22), e non essere mai soddisfatti della nostra condizione attuale o dei progressi attuali che possiamo aver fatto. Il laodicese non era un fariseo, o quel che si direbbe un uomo con una propria giustizia in materia di religione. Poteva anche essere un credente ortodosso; avere delle nozioni esatte e una capacità di giudizio corretta; ma si riposava su ciò che aveva e conosceva in uno spirito di intima soddisfazione; non sentiva l’urgente bisogno di risvegliarsi e di fortificarsi nelle vie del Signore.

«Levatevi, andatevene! Perché questo non è luogo di riposo» (Michea 2:10), dice lo Spirito Santo per mezzo del profeta. Perché non era un luogo di riposo? Perché era «contaminato». Non perché vi erano dolori, contrarietà, dispiaceri, privazioni, ma perché era «contaminato». L’anima rigenerata deve attingere non nelle circostanze ma nel carattere morale della scena di questo mondo dei motivi per rendere efficace dentro a se stessa la potenza della risurrezione di Cristo.

La colomba fuori dell’arca non aveva da temere le insidie del cacciatore, ma non trovava sulla terra ancora contaminata e invasa dalle acque del giudizio un luogo ove poter posare i piedi (Genesi 8:9).

È umiliante descrivere i livelli di esperienza che noi abbiamo così debolmente raggiunto. Ma, come uno che vede da lontano una luce risplendente, ammiriamo e salutiamo le virtù della vita di risurrezione.

Un uomo morto e risuscitato non saprebbe trovare quaggiù il movente della sua condotta, né un oggetto per le sue affezioni. I suoi principi di azione sono in Cristo, e il regno futuro forma il soggetto delle sue speranze. Preferisce la giustizia di Dio ai vantaggi e agli ornamenti della carne; avendo in ispirito lasciato il mondo dietro e sotto a sé, in modo vivente e pratico, egli sale sul monte; lotta contro l’illusione delle circostanze, frena gli impulsi della sua natura e storna i suoi affetti dalle cose della terra per fissarli su quelle che sono in alto, con Cristo. Non ha più nulla in se stesso, ma ha guadagnato Cristo. Vede il mondo muoversi e proseguire il suo corso laggù nella pianura, mentre lui ascende verso Gesù. Dimostra così di essere straniero in mezzo ai regni e in mezzo ai piaceri e alle vanità di questo mondo nelle quali il suo cuore non può trovare piacere.

Tutte queste virtù e queste qualità del cuore, che sono di un’eccellenza divina, egli trova il mezzo di realizzarle. Come il suo Maestro, può nascondere la gloria alla quale Dio lo destina e desiderare di essere niente sulla scena di quaggiù. Abrahamo non diceva a nessun Cananeo di essere l’erede dei paese. «Io sono straniero e avventizio fra di voi» dice ai figli di Heth (Genesi 23:4), Si accontentava di essere straniero, senza patria, senza casa, senza focolare; accettava, e questo è a volte penoso, di essere considerato così dagli altri.

Fu la stessa cosa di Davide, un altro membro della santa famiglia. Era perseguitato dall’uomo che era al potere, benché l’olio di Samuele fosse stato sparso sul suo capo in segno di consacrazione al trono da parte di Dio. Ma non manifestò a nessuno i disegni di Dio a suo riguardo, e in questo consistevano il segreto e la gioia della sua fede. Non ne approfittava fra gli uomini e non parlava di se stesso per evitare che il mondo potesse dare valore alla sua persona. Lungi dal vantarsi, si considerava davanti agli altri «... come un can morto», «una pulce» (1 Samuele 24:15).

Oh, fede preziosa! Fede santa e trionfante! Ma era un’altezza che Giobbe non aveva ancora raggiunto. Egli non apparteneva, quanto alla potenza che si manifestava nella sua anima, a questa generazione. Non voglio dire che la posizione vantaggiosa che occupava in questo mondo lo rendesse orgoglioso o indolente o indifferente verso gli altri. Ma egli apprezzava questa posizione e si compiaceva. Con quale eloquenza la descrive al capitolo 29! La passa minuziosamente in rassegna in tutti i suoi particolari, e dimostra quanto il suo cuore vi fosse attaccato. Amava la sua condizione e le circostanze della sua vita, il suo posto, il suo carattere, la sua dignità, la stima e la lode dei suoi simili. Era veramente e ammirevolmente pio; non c’era sulla terra alcun uomo come lui. Tuttavia, la sua posizione aveva troppa importanza ai suoi occhi. Era molto liberale quando si trattava di comunicare o di servire, ma comunicava e serviva da padrone, da benefattore. Il suo desiderio era di continuare a vivere così: «Moltiplicherò i miei giorni come la rena...» (29:18). Queste erano le sue previsioni. Da qui il grande scopo della sua prova e l’intento di Dio nel farcela conoscere; perché questo libro ci offre la storia di un santo, o meglio la storia delle sue prove al tempo dei patriarchi.

Lo stile, come pure la sostanza di questo libro, ha dell’analogia con tutto il resto della Bibbia. Non ci sono delle dottrine formalmente insegnate secondo un metodo scientifico; ve ne sono, ma sottintese e presentate come a caso. Tale è il metodo comunemente usato anche nelle epistole. La grande rivelazione che ci è fatta di tutte le dottrine si presenta con l’intento di trarre delle conseguenze, di rispondere a delle questioni, di difendere la verità contro i corruttori o contro quelli che contraddicono. Così, anche il libro di Giobbe non presenta dottrine se non incidentalmente, perché ha per scopo più diretto quello di esporre la situazione di un’anima che impara a conoscere, la sua separazione dal mondo e la sua comunione con Dio nei luoghi celesti.

Come ogni racconto di circostanze desolanti e di avvenimenti drammatici tende a impressionare, quello che ci è riferito da questo libro, riguardo a Giobbe, colpisce particolarmente. Gli avvenimenti stessi sono solenni e profondamente commoventi. Tuttavia non c’era, in un certo senso, nulla di straordinario; in altre parole, «nessuna tentazione» lo ha colto «che non sia stata umana» (1 Corinzi 10:13). Una banda di ladri si getta sui suoi buoi e sui suoi asini e li rapisce; il fuoco cade dal cielo e distrugge i suoi greggi; un gran vento soffia dal deserto e fa crollare la sua casa uccidendo i suoi figli; infine, è colpito egli stesso nel suo corpo da un’ulcera maligna, dalla pianta dei piedi fino alla sommità del capo. Ognuno di questi incidenti avrebbe potuto succedere benissimo a uno dei suoi vicini infedeli. Non v’era nulla, in questo, che lo distinguesse da un altro uomo. Non erano sofferenze per la giustizia, da parte degli uomini, né sofferenze di martire. Erano quelle che sono comuni a tutti. Però, furono saggiamente distribuite ed esattamente commisurate dalla mano del Padre celeste, con uno scopo prestabilito e sotto forma di disciplina; il tutto procedeva dall’amore divino, ed era anche il risultato di grandi transazioni nel cielo, perché Satana s’era presentato per accusare Giobbe, e l’Eterno (parlo alla maniera degli uomini), si vantava del suo servitore. Il Signore aveva così autorizzato Satana a levarsi contro Giobbe e a scagliare le sue frecce contro di lui, ma gli aveva anche assegnato dei limiti che non doveva varcare.

Ed è questo che è consolante sapere, poiché molti figliuoli di Dio, durante la prova, sono turbati dal pensiero che le loro prove sono quelle di tutto il mondo e che, dopo tutto, non vi è nulla che li distingua dal resto degli uomini. Ma hanno torto a lasciarsi turbare così. Quanto alla forma o alla specie di afflizione il credente può, è vero, trovarsi sullo stesso piano dei suoi simili. Il giusto e il malvagio possono perdere allo stesso modo un membro della loro famiglia nello stesso incidente o per la stessa malattia; ma la fede tiene conto delle relazioni con Dio e della simpatia che risveglia nel cielo tutto ciò che riguarda il fedele.

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