L’HANDICAP ALLA LUCE DELLA BIBBIA La sofferenza, “megafono di Dio”Il 2003 è stato l’anno che l’Unione Europea ha dedicato alla Disabilità. La mia impressione (come persona disabile) è che l’Europa (incluso il nostro Paese) non abbia fatto un gran che verso questa categoria di cittadini considerati praticamente di serie “B”. Naturalmente questa non è l’unica ingiustizia di cui soffrono dei cittadini italiani (ed europei). Io però col seguente articolo mi sono prefissato una mèta che dubito sia oggetto di attenzione da parte del governo italiano o di qualche governo europeo. Infatti desidero vedere l’handicap non tanto nell’ottica politica o socio-previdenziale-assistenziale (lascio tale compito a chi ha ricevuto il mandato per assolverlo) ma alla luce della Bibbia – soprattutto del Nuovo Testamento – e come punto di partenza faccio riferimento a ciò che ha scritto il noto scrittore britannico C. S. Lewis nel suo libro “Il problema della sofferenza” (ed G.B.U., pag. 79): “La sofferenza richiama sempre attenzione. Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze, ma grida nelle nostre sofferenze; il dolore è il Suo megafono per svegliare un mondo sordo”.
Non posso fare a meno di condividere questo suo pensiero, infatti, quando tutto ci va bene difficilmente pensiamo a Dio (ciò è vero soprattutto per il non credente). Quando poi il dolore invade e devasta la nostra esistenza o quella dei nostri cari (conta poco sotto quale veste: incidente, malattia o altro), allora è come svegliarsi di soprassalto da un bel sogno mentre le orecchie ci rintronano spaccandoci i timpani perché il dolore, la sofferenza sono esplosi nella nostra tranquilla vita ove tutto era morbido, soffice, vellutato. È proprio vero che la sofferenza richiama sempre attenzione e fa porre interrogativi inquietanti.
La sofferenza, “stimmate” del peccato
Ne sanno qualcosa gli stessi discepoli del Signore i quali, quando si trovarono davanti a un uomo che era nato cieco, non poterono fare a meno di chiedersi – e di chiedere a Gesù: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, dato che è nato cieco?” (Giovanni 9:2).
Probabilmente la domanda dei discepoli è stata posta a bassa voce, forse anche con qualche imbarazzo poiché si trovavano davanti a qualcosa che era più grande di loro e a cui tentavano (secondo una certa logica) di dare una spiegazione razionale. È da notare che, benché la domanda dei discepoli rifletta un atteggiamento classico, fa comunque evidenziare una tremenda realtà, e cioè che l’handicap, la disabilità, la malattia, la sofferenza, la morte sono tutte conseguenze (dirette o indirette) del peccato dell’umanità, infatti Genesi 2:16-17 è scritto: “Dio diede all’uomo questo comandamento: «Mangia con la massima libertà il frutto di ogni albero del giardino; ma il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non lo mangiare; perché nel giorno che tu lo mangerai, sicuramente morirai»’”.
Infatti l’uomo muore in conseguenza della sua disubbidienza a Dio e della sua caduta nel peccato. Ma la sua morte quasi mai ha un cammino dolce; quasi sempre il percorso che conduce l’uomo alla sua morte è costellato di dolore, di sofferenze e di handicap vari.
Quindi la domanda dei discepoli: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, dato che è nato cieco?” per certi versi è legittima, infatti, quel cieco portava in sé le “stimmate” del peccato, ma non di un suo peccato particolare oppure di un peccato specifico dei suoi genitori, bensì lui aveva nel suo corpo (in maniera più evidente che in altri) le conseguenze del monito di Dio ad Adamo e a Eva (Genesi 2:16,17). Ma ciò nonostante, il Signore – nella Sua immensa misericordia – si serve anche di una grave disabilità per manifestare la grazia di Dio e le opere di Dio. Infatti, Gesù così risponde alla domanda dei suoi discepoli: “Né lui peccò, e neanche i suoi genitori; ma è così [cioè quell’uomo è nato cieco] affinché le opere di Dio siano manifestate in lui” (Giovanni 9:3).
Infatti Dio manifestò la Sua opera in quel cieco in due maniere: guarisce – attraverso Gesù – l’uomo che era nato cieco (Giovanni 9:6,7) e poco dopo – sempre mediante il Suo Figliuolo – lo salva (Giovanni 9:35-38). In altre parole, in quest’uomo nato cieco è avvenuto un duplice miracolo: fisico e spirituale.
Ma qual è stato il miracolo di portata eterna? Quello fisico o quello spirituale? Sicuramente quello spirituale! Infatti, il “nostro” ex-cieco un giorno potrebbe avere avuto nuovamente seri problemi di vista a causa della vecchiaia… invece la salvezza che aveva avuto in dono, credendo nel Signore Gesù, quella non l’ha persa neanche con la vecchiaia, perché quando Dio salva una persona, la salva per sempre!
Il vero problema dell’uomo
Un altro caso in cui il Nuovo Testamento ci parla di handicap, riguarda un uomo paralizzato agli arti inferiori che fu portato – letteralmente di peso – da Gesù. Questo mi fa pensare a qualcosa che avviene anche oggi: dinanzi ad una persona gravemente handicappata, non di rado ci sono persone che hanno atteggiamenti di compassione mista a pietà, soprattutto coloro che sono più vicini al disabile, e quasi sempre si tratta di parenti o di amici (a volte di volontari). In genere queste persone tentano di venire incontro alle esigenze dell’invalido cercando di intuire i problemi di quest’ultimo e di trovare la soluzione migliore per lui (e ciò è indubbiamente positivo). Questo è quello che dovettero pensare alcune persone che portarono da Gesù un uomo paralizzato, e lo portarono con una sorta di “barella” (Marco 2:1-12). Quelle quattro persone ebbero un bel da fare per introdurre il paralitico alla presenza di Gesù, ma – anche se in maniera rocambolesca – riuscirono nel loro intento (Marco 2:4). Quando il paralitico fu davanti a Gesù, coloro che faticosamente lo avevano portato e tutti quelli che assistevano a quella scena non certo comune (un paralitico che scende dal tetto calato su una “barella”) si aspettavano ovviamente un miracolo da parte di Gesù a favore del paralitico, invece il Signore che fece? Sorprese ancora una volta tutti rivolgendo all’uomo paralizzato delle parole che forse nessuno si aspettava ma che erano cariche di affetto e di compassione: “Figliuolo, i tuoi peccati ti sono rimessi [perdonati, cancellati]” (Marco 2:5). Le parole di Gesù avevano centrato il vero problema di quel disabile: il perdono dei suoi peccati. Ma i religiosi ben-pensanti dell’epoca contestarono (nei loro pensieri) Gesù accusandolo di bestemmiare perché solo Dio può rimettere i peccati (Marco 2:6,7). Allora Gesù disse loro: “Secondo voi che cosa è più utile dire al paralitico: i tuoi peccati ti sono cancellati, oppure dirgli: alzati, prendi il tuo lettino e cammina?” (Marco 2:9). Probabilmente ci sarà stato qualche attimo di pesante silenzio in cui forse la maggior parte dei presenti avrà pensato che per quel paralitico la cosa migliore sarebbe stata quella di poter camminare con le proprie gambe. Forse anche oggi tanti penserebbero così, perché oggi più che mai si vive per il corpo, che deve essere bello, funzionale, perfetto, statuario, trascurando molto spesso quello che non si vede, lo spirito. In tal modo si tenta di eliminare o ridurre ai minimi termini l’handicap, la malattia, la sofferenza. Questi tentativi possono certamente apparire come encomiabili, però non risolvono il vero problema dell’uomo: il perdono dei propri peccati e la riconciliazione con Dio. Ora, bisogna ancora dire che Gesù non ha mai disprezzato il corpo, ma ha messo ogni cosa al posto giusto centrando il vero problema sia per quel disabile che per ogni persona normodotata, cioè: il perdono dei propri peccati. Gesù dimostrò poi il Suo potere sia guarendo fisicamente il paralitico (quindi prendendosi cura del suo corpo), sia perdonandogli i suoi peccati (prendendosi in tal modo cura dell’anima di quell’uomo). Ma è da notare che Gesù innanzitutto lo guarisce spiritualmente, perché quella era la necessità veramente importante, solo dopo lo guarisce anche fisicamente. Questo ci fa capire che il vero problema che ogni uomo deve risolvere non è il benessere fisico o la guarigione del suo corpo, ma il suo benessere spirituale e la salvezza eterna della sua anima, e tutto ciò passa esclusivamente attraverso il sacrificio di Cristo che ha dato sé stesso per la nostra salvezza.
L’handicap dell’antipatico
Davanti ad una persona come Zaccheo difficilmente la gente si muoveva a compassione. Infatti, lui era una persona totalmente autonoma: parlava, vedeva, sentiva, era dotato anche di un’intelligenza piuttosto vivace. Il suo più che altro era un handicap interiore, benché avesse anche quello che per lui era indubbiamente un “handicap” esteriore: la mancanza di altezza. Potremmo dire che il suo handicap era legato più che altro all’apparire, all’auto-accettazione, ed è un handicap comunissimo nella nostra epoca in cui più che essere si deve apparire (stando ai cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: televisione e riviste in primo luogo). Così anche oggi tanta gente – soprattutto adolescenti e giovani, ma anche ultra cinquantenni – non si auto-accetta per come è (“Sono troppo alto, troppo basso, grasso, magro, gambe storte, naso storto, orecchie a sventola, viso lentigginoso, calvo, capelli ricci, capelli lisci, voce stridula, pancetta...”). A volte questo tipo di handicap conduce la persona a rendersi ridicola o a compiere gesti inconsulti perché si è auto-convinta che nessuno la accetta, nessuno la ama: è il classico complesso di inferiorità.
Per quanto riguarda Zaccheo, il suo complesso di inferiorità lo notiamo quando Gesù arrivò nella sua città e lui – che probabilmente era piuttosto curioso – pur di vederLo fu costretto a rendersi ridicolo e (come una scimmietta) si arrampicò su un albero (Luca 19:1-4). Ora, se su quell’albero si fosse arrampicato un agile e scultoreo atleta (tipo Tarzan), sicuramente sarebbe stato ammirato, ma, dato che ad arrampicarsi su quell’albero fu “la scimmietta-Zaccheo,” molto probabilmente si beccò chissà quante battute sarcastiche per la sua “impresa”. Zaccheo insomma non godeva le simpatie dei suoi concittadini, e ciò probabilmente era dovuto non tanto alla sua disabilità – era piccolo di statura (Luca 19:3) – quanto al mestiere che esercitava: “era capo dei pubblicani ed era ricco” (Luca 19:2). In altre parole, era un capo esattore delle tasse (per conto dei Romani) e sicuramente si era arricchito disonestamente alle spalle dei contribuenti. Di certo Zaccheo non era amato dai più e chissà quante volte avrà pensato di non essere amato neanche da Dio, ma Dio lo amava e lo dimostra il fatto che Gesù addirittura si auto-invitò a casa sua scatenando le critiche dei religiosi dell’epoca: “Come Gesù arrivò in quel luogo, alzò gli occhi [verso l’albero] e disse a Zaccheo: «Scendi subito, perché oggi devo albergare in casa tua». Zaccheo scese subito e lo accolse con allegrezza. Veduto ciò, tutti mormoravano dicendo: È andato ad albergare da un peccatore” (Luca 19:5-7). Il Signore non pose attenzione alle critiche della gente e sicuramente ebbe una conversazione molto proficua con Zaccheo. Questo lo si deduce dal fatto che Zaccheo visse un cambiamento radicale della sua vita perché fu salvato dal Signore, e ciò lo si comprende dal fatto che “Zaccheo si presentò al Signore dicendo: «Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno di qualcosa, gli rendo il quadruplo». E Gesù gli disse: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa… poiché il Figlio dell’uomo [Gesù Cristo stesso] è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto»” (Luca 19:10).
Dato che il Signore conosce quello che c’è nel cuore dell’uomo, sapeva bene che Zaccheo non stava bluffando, non stava cercando di fare “una buona impressione” su Gesù. È da notare ancora che quando Zaccheo si convertì a Cristo, la sua vita cambiò solo interiormente; esteriormente (fisicamente) rimase come era: piccolo di statura, ma gigantesco spiritualmente.
L’evangelista handicappato
Quando guardiamo all’apostolo Paolo e alla sua vita estremamente impegnata e movimentata, facciamo fatica a vedere in lui una persona handicappata. Ci piace vederlo come una sorta di condottiero per l’Evangelo. Non per niente qualcuno lo definì: “Il leone di Dio”, e ciò proprio per il coraggio, la tenacia, la determinazione che (come pochi) ha messo al servizio del Signore. Quando pensiamo a quest’apostolo facciamo fatica a scorgere in lui un handicap fisico, considerando i suoi molteplici viaggi per mare e per terra: un impegno che non è durato solo per qualche mese, ma per molti anni. Si calcola che dalla sua conversione a Cristo fino al giorno della sua morte a Roma, egli abbia servito il Signore per un periodo di tempo che va dai 25 ai 35 anni compiendo tantissimi viaggi in situazioni spesse volte disagevoli – soprattutto considerando i mezzi di trasporto dell’epoca. Eppure questo grandissimo uomo di Dio aveva anche lui un handicap: si suppone che si trattasse di un serio problema legato alla vista o che comunque fosse sicuramente visibile e non tanto piacevole da guardare. Infatti, in una delle sue lettere (Galati 4:13,14) egli così scriveva: “Voi sapete bene che fu a motivo di una [mia] infermità della carne che vi evangelizzai la prima volta; e quella mia infermità fisica – che era per voi una prova – voi non la disprezzaste e non l’aveste a schifo; al contrario, mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù stesso”. Queste parole ci fanno vedere – da un lato – che l’handicap (in un credente) può divenire un mezzo efficace per evangelizzare. Da un altro lato, queste parole di Paolo ci fanno comprendere quale deve essere il nostro atteggiamento verso la persona handicappata: deve essere accolta, accettata, ben voluta, non tanto perché è handicappata, ma perché è una persona. Altrimenti come ascolterà l’Evangelo quel disabile che magari oggi evitiamo solo perché ci sentiamo a disagio in sua presenza o perché la sua disabilità ci fa schifo? Oltretutto, la persona che oggi è giovane, bella, perfettamente funzionale, domani potrebbe essere ripugnante, brutta e handicappata o a causa della vecchiaia, o per malattia o incidente, e quella persona potresti essere un giorno tu. Vorresti che gli altri ti evitassero lasciandoti marcire nella solitudine della tua vecchiaia o nella tua disabilità?!?
Comunque nonostante la sua disabilità, l’apostolo Paolo è stato un uomo di cui Dio si è servito in maniera incredibile: ha viaggiato più di tutti gli altri apostoli, ha fondato numerose chiese, ha scritto quasi la metà del Nuovo Testamento, ha portato l’Evangelo quasi in tutto l’Impero Romano (Roma inclusa) e per rimanere fedele a Cristo è stato ucciso a Roma. Ma l’apostolo Paolo come ha vissuto il suo handicap? Non certo con rassegnazione o fatalismo. Ebbe ugualmente una vita intensissima e testimoniò che l’handicap era stato usato da Dio per renderlo umile, per non farlo “insuperbire, dato che aveva avuto [da Dio] delle rivelazioni eccezionali” (2Corinzi 12:7). Disse anche di aver pregato il Signore (per la sua guarigione o per un miracolo) non una volta ma in ben tre diversi momenti della sua vita (2Corinzi 12:
ma era consapevole che il Signore non è obbligato a guarire nessuno, quindi accettò senza recriminazioni o amarezze la risposta del Signore: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza” (2 Corinzi 12:9). L’apostolo Paolo accettò a tal punto questa risposta del Signore che disse ancora: “Molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su me. Per questo io mi compiaccio nelle debolezze, nelle offese, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie per amore di Cristo; perché quando sono debole, allora sono forte” (2 Corinzi 12:9,10).
L’atteggiamento dell’apostolo Paolo verso il suo handicap non fu quindi di rassegnazione, di amarezza, di vittimismo o di fatalismo, ma lo accolse come qualcosa che Dio gli aveva inviato affinché fosse la grazia di Dio a risaltare nella sua vita, e non le sue capacità intellettuali o i suoi talenti naturali. Inoltre, non fece appello al fatto di essere un apostolo per “ricattare Dio” imponendoGli un miracolo o una guarigione nei suoi riguardi. Dio non è obbligato a guarire nessuno e non è in debito con nessuno, neanche con un apostolo del calibro di Paolo. Quando il Signore guarisce o fa un miracolo, sta agendo ancora una volta nella Sua grazia, non perché il “guarito” o il “miracolato” abbiano acquisito qualche merito. Davanti al Signore non ci sono meriti di sorta, e noi dobbiamo imparare ad accettare la Sua perfetta volontà, anche quando non la comprendiamo!
Il peggior handicap
Se facessimo un sondaggio chiedendo ad un gruppo variegato di persone qual è (secondo loro) il peggiore handicap, sicuramente verrebbero fuori risposte tipo: cecità, sordità, paralisi, ritardi mentali, ecc.; tutti handicap legati in qualche maniera all’aspetto fisico o psichico della persona. Se poi facessimo vedere – sempre alle stesse persone – il filmato di un giovane molto religioso, fisicamente perfetto, bravo e onesto, capace di sostenere egregiamente una conversazione, magari anche con un sostanzioso conto in banca, ritengo che ben pochi direbbero che quel giovane è affetto dal peggiore handicap che possa esistere. Eppure, questo tipo di giovane – così gravemente handicappato – esiste e lo troviamo descritto in un racconto riportato nel Vangelo di Marco (10:17-27). Vi si racconta che un giovane – apparentemente non è affetto da alcun handicap – si precipitò davanti a Gesù, s’inginocchiò alla Sua presenza e gli pose la domanda che vorremmo sempre sentire: “Maestro buono, che devo fare io per ereditare la vita eterna?” (Marco 10:17). La domanda è quella che vorremmo sempre sentire, però nella sostanza non è corretta, perché lui riteneva di poter fare qualcosa per essere salvato, quando in realtà non poteva fare assolutamente nulla per ereditare la vita eterna. Gesù comunque intavola un serio dialogo con lui e – per fargli notare la sua impossibilità di ereditare [come premio, come merito] la vita eterna – gli chiede di mettere in pratica alcuni comandamenti (che da bravo religioso ovviamente conosceva): “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza... onora tuo padre e tua madre” (Marco 10:19). Se questo giovane si fosse esaminato onestamente prima di rispondere a Gesù, avrebbe preso atto del suo reale fallimento, invece di dire: “Maestro, tutte queste cose io le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Marco 10:20). È come se avesse detto: “Maestro, mi deludi; da te mi aspettavo qualcosa di diverso, da te mi aspettavo qualcosa di più alto, mi aspettavo una sorta di 11° comandamento e non la solita tiritera di comandamenti a me arcinoti”. Allora Gesù pose il dito nella sua piaga toccando il suo invisibile ma grave handicap che – in questo caso – era un vero e proprio idolo: l’amore per il denaro. Ecco perché Gesù gli disse: “Vai, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri, così avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” (Marco 10:21). La reazione di questo giovane ricco e religioso fu molto triste, infatti egli “fu rattristato da quelle parole di Gesù e se ne andò addolorato, perché aveva grandi beni” (Marco 10:22). Il suo grave handicap spirituale lo aveva paralizzato più di una paralisi fisica. Infatti, ai fini della salvezza se l’uomo confida in sé stesso, nella propria bontà e onestà, nelle proprie ricchezze, nella propria religione, non sarà mai salvato, ecco perché Gesù disse, a commento di quest’incontro: “Quanto difficilmente entreranno nel regno di Dio coloro che confidano nelle ricchezze... È più facile a un cammello passare attraverso la cruna di un ago che a un ricco [che confida in sé stesso, nella propria religiosità e nelle sue ricchezze] entrare nel regno di Dio” (Marco 10:23, 25).
I discepoli di Gesù nel sentire queste parole rivolte al giovane ricco restarono stupiti e dicevano fra di loro: “Ma allora, [se neanche un religioso ricco può salvarsi] chi può essere salvato?” (Marco 10:27). A questa angosciosa domanda dei suoi discepoli, Gesù rispose in maniera inequivocabile: “Agli uomini è impossibile salvare [sia se stesso che gli altri] ma non a Dio, perché tutto è possibile a Dio” (Mr 10:27). L’uomo non può auto-salvarsi; l’uomo non può neanche aiutare Dio, per ottenere la propria salvezza o per quella degli altri). L’uomo può solo arrendersi a Dio e farsi salvare da Gesù Cristo, perché Dio ama l’uomo, non importa se quell’uomo è normodotato o handicappato, ricco o povero, bianco o nero, vecchio o giovane, perché “Dio ha tanto amato il mondo [l’essere umano] che ha dato il suo unico figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).
Probabilmente tramite la lettura di questo articolo Dio ha sussurrato dolcemente nelle tue orecchie, dicendoti che ti ama e che ti vuole salvare. Ascolta la Sua voce che ti chiama a salvezza, non costringerLo a gridare nelle tue orecchie. Ma se già sta gridando nel tuo dolore, se sta gridando nella tua sofferenza, se sta gridando nel tuo handicap, lo fa per svegliarti, affinché anche tu accetti Gesù Cristo come tuo Salvatore e Signore.
Non fare come il giovane ricco e religioso che è andato via da Gesù profondamente rattristato sotto il peso del peggiore degli handicap: la separazione da Dio. Non essere sordo alla Sua voce!
F.L.