Giosue Capitolo 4
Henri Rossier
4.1 Le dodici pietre in Ghilgal
Abbiamo visto nel capitolo precedente che la fede in Cristo ci insegna (dopo un’esperienza sovente lunga quanto i quarant’anni del deserto per Israele) la liberazione dal nostro antico stato e l’introduzione in un nuovo stato in Cristo. L’anima, lavorata da molto tempo, apprende finalmente — è Dio che lo rivela alla fede — che ciò ch’essa cercava inutilmente di raggiungere è un fatto attuale, compiuto in Cristo per la fede.
Stupisce l’estrema semplicità con cui è espressa la scoperta di questo fatto capitale in Romani 7, mentre abbisognò tutto il corso del capitolo per definire le esperienze dell’anima prima della liberazione. Inoltre, l’espressione disperata d’una posizione senza uscita fa posto, senza transizione, a quella della riconoscenza e della gioia: «Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore». Il motivo mi appare molto semplice. Quando l’anima fa questa scoperta, impara che la liberazione ch’essa era incapace di raggiungere l’aveva già operata Dio per mezzo di Cristo e in Lui. Non è più una cosa da compiersi: è un fatto compiuto, che l’anima scopre e di cui si appropria, come preparato da molto tempo per la fede. Allora, nella calma e nella pace che inondano l’anima sua, il credente può dire: Ormai sono morto, perché sono in Cristo: sono morto con Cristo, morto al peccato, alla legge, al mondo; e vivo, non più io, ma Cristo vive in me (Galati 2:19 e 20; Romani 6:10; Colossesi 2:20; Galati 6:14).
È una verità non del dominio dell’intelligenza, e che il ragionamento non spiega, che non è ritenuta dalla memoria. Quante volte ho visto delle anime che cercavano d’impadronirsi, per così dire, dell’affrancamento con tanti sforzi. Che cosa accadeva? Quando, dopo molto travaglio di mente, credevano di essersi resi conto della portata dell’affrancamento, bastava una notte per dissipare ciò che credevano di possedere, come accade alle foglie morte che un soffio spazza via dalla sera al mattino. La realtà dell’affrancamento non si può capire ad un tratto; la troviamo soltanto dopo la nostra esperienza nella carne perché senza questa esperienza l’affrancamento non è conosciuto, come non vi fu passaggio del Giordano per Israele prima del deserto. L’affrancamento non è un’esperienza ma uno stato afferrato per la fede. È sperimentale solo nel senso che io mi vedo in Cristo, invece di afferare, come per la redenzione, un’opera compiuta fuori di me.
Tale è il significato del Giordano per noi. Ma Dio vuole che abbiamo continuamente sotto gli occhi il memoriale di questa vittoria.
Giosuè comanda ai rappresentanti delle dodici tribù di prendere dodici pietre dal mezzo del Giordano, dal luogo dove i sacerdoti si fermarono. Quelle pietre dovevano essere un segno fra i figli d’Israele. Dovevano essere collocate nel luogo dove il popolo passerà la prima notte nella terra di Canaan. Questo luogo fu Ghilgal. Che cosa significavano quelle pietre? Rappresentavano le dodici tribù, il popolo strappato alla morte, per mezzo dell’arca che s’era fermata nel luogo stesso dal quale bisognava essere liberati, e che aveva fermato le acque del Giordano perché Israele passasse il fiume. Ma esse diventavano un monumento all’entrata di Canaan, in Ghilgal, in un luogo dove (come lo vedremo più avanti) il popolo dovrà sempre ritornare; erano un segno destinato ad essere ormai costantemente sotto i loro occhi e sotto gli occhi dei loro figli.
Cari lettori cristiani, come Israele, noi siamo quei trofei della vittoria riportata sulle acque impetuose del fiume. Cristo è entrato nella morte, perché noi vi eravamo. «Uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono» (2 Corinzi 5:14), e affinché poi fossimo tratti fuori dalla morte e condotti ad una vita nuova nella sua propria risurrezione: «Quand’eravamo morti nei falli, ci ha vivificati con Cristo... e ci ha risuscitati con Lui» (Efesini 2:5).
Ma abbiamo al di là del Giordano il monumento di quest’opera memorabile, edificato là in permanenza per servire d’alimento alla fede d’Israele, monumento che il popolo ritroverà sempre all’entratta di Canaan. Per noi è Cristo, oggetto della nostra fede, il primogenito d’infra i morti, risuscitato ed entrato nei luoghi celesti, ma un Cristo che ci rappresenta lassù e ci associa a sé, come si è associato a noi nella morte.
Ora, Dio vuole che il Cristo, posto così davanti ai nostri occhi, produca in noi un effetto morale corrispondente; che la nostra coscienza sia impegnata in modo durevole da questa contemplazione. «Queste pietre saranno, per i figli d’Israele, una ricordanza in perpetuo»; anche per noi è così, con un effetto interiore che l’accompagna. Il credente risuscitato con Cristo porta su di sé il carattere indelebile della sua morte. Se tale è il mio posto in Cristo, posso io vivere ancora alle cose che ho abbandonato, che Cristo ha lasciato in fondo al Giordano? «Il suo morire fu un morire al peccato una volta per sempre: ma il suo vivere è un vivere a Dio». Fin qui è a ricordanza. «Così anche voi fate conto d’esser morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù» (Romani 6:10,11). Ecco l’effetto morale.
Le dodici pietre in Ghilgal non sono soltanto la nostra morte e la nostra risurrezione con Cristo (il Giordano significava questo), ma sono il memoriale di questa morte e di questa risurrezione, vedute in Cristo risuscitato e entrato nella gloria. Questo monumento ci ricorda ciò che ormai dobbiamo essere. Al Giordano, Dio ci dichiara morti, ed è la parte di tutto il popolo; ogni cristiano è morto e risuscitato con Cristo. Ghilgal ne è la realizzazione morale. Tutti avevano passato il Giordano, però molti di loro erano forse tanto indifferenti da non informarsi del perché di quel monumento di Ghilgal, di quelle pietre che dicevano al popolo: «Fate conto d’esser morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù» (Romani 6:11).
4.2 Le dodici pietre in mezzo al Giordano
Se le dodici pietre in Ghilgal parlavano alla coscienza d’Israele, un altro monumento elevato in mezzo al Giordano parlava seriamente al suo cuore. Chi poteva vedere quelle pietre, poiché le acque che staripavano da per tutto le avevano ricoperte? Potevano soltanto essere conosciute dalla fede. Non erano il simbolo d’una vita di risurrezione, che aveva attraversato la morte e ne portava le insegne e il carattere; erano essenzialmente il monumento della morte. Le pietre in Ghilgal sono il monumento dell’introduzione per mezzo di Cristo nei nostri privilegi, privilegi in cui noi entriamo soltanto dopo essere passati per la morte con Lui. Ma quando penso alle pietre nel Giordano, il mio cuore è in comunione con Lui nella morte. Ritorno a sedermi, per così dire, in riva al fiume della morte e dico: Ecco il mio posto; là io ero; là Egli è entrato per me. Egli mi ha liberato dal peccato, dal mio vecchio uomo e l’ha lasciato, con la sua vita, in fondo al Giordano; le acque profonde mi hanno seppellito nella persona di Cristo. Che cosa ti obligava, diletto Salvatore, a prendere quel posto? Tu solo avevi il diritto di non occuparlo mai; tu solo, avendo lasciato la tua vita, avevi il diritto di riprenderla. Ma il tuo amore per me ti ha fatto entrare nella morte. Nessun altro motivo, fuorché la gloria di Dio che avevo disonorato, ha potuto farti discendere là. Non soltanto tu hai fermato vittoriosamente per me le acque del Giordano, impegnando da solo il combattimento, «finché tutto quello che l’Eterno aveva comandato a Giosué... fosse eseguito» (v. 10), e il popolo intero fosse passato; ma quelle stesse acque son passate su di Te. Io vedo in quel monumento quel che la morte è stata per la tua anima santa; vi ritrovo il ricordo dell’amarezza profonda di quel calice che tu hai bevuto! Le dodici pietre «vi sono rimaste fino al dì d’oggi» (v 9). Il monumento resta, la croce resta, testimomanza eterna d’un amore che ho imparato a conoscere là, testimonianza anche del solo posto in cui Dio potesse mettere tutto quel che appartiene al mio vecchio uomo.
In rapporto con queste cose, notate anche ciò che è presentato al v. 18. «E avvenne che, come i sacerdoti che portavano l’arca del patto dell’Eterno furono usciti di mezzo al Giordano e le piante dei loro piedi si furono alzate e posate sull’asciutto, le acque del Giordano tornarono al loro posto e strariparon da per tutto, come prima». La sentenza è eseguita, il vecchio uomo condannato, la condanna passata, la morte vinta; ma la morte resta. Ciò che era prima un ostacolo per entrare, ostacolo annullato dall’arca che ci aprì la strada, diventa, dopo il nostro passaggio, quel che ci separa non solo dal lontano Egitto e dal deserto di Sinai ma da noi stessi. Siamo noi soddisfatti di non aver più nulla a che fare con l’uomo, con noi stessi? Se così non è, allora non vi può essere per noi godimento durevole nel paese di Canaan.
Le due tribù e mezzo (v. 12 e 13) passarono il Giordano coi loro fratelli, equipaggiati per la guerra, per combattere; ma due cose non conoscevano: il valore del paese di Canaan e il valore della morte. Il fiume non li arrestò quando, rientrando, raggiunsero le mogli, i figli e i greggi che li aspettavano a riva. Il paese «al di qua» aveva per loro un’attrazione, mentre il popolo, che godeva in pace Canaan, vedeva con gioia, nel Giordano, la barriera che lo separava da tutto ciò che, ormai, non aveva più alcun valore ai suoi occhi.
«In quel giorno, l’Eterno rese grande Giosuè agli occhi di tutto Israele; ed essi lo temettero, come avevano temuto Mosè tutti i giorni della sua vita» (v. 14). Lo stesso è di Cristo. La gloria del Padre lo elevò grandemente, come Salvatore, ai nostri occhi, in virtù della sua opera perfetta. Il risultato di quest’opera è l’introduzione dei santi con Lui nel godimento attuale e nel possesso futuro della gloria. È il suo titolo di gloria e il suo onore per sempre.
Ma il Signore possederà anche altre corone. Verrà per Lui il giorno, di cui Salomone godette in figura, di cui è detto: «Salomone si assise dunque sul trono dell’Eterno come re, invece di Davide suo padre; prosperò, e tutto Israele gli ubbidì. E tutti i capi, gli uomini prodi, e anche tutti i figli del re Davide si sottomisero al re Salomone. E l’Eterno innalzò sommamente Salomone nel cospetto di tutto Israele, e gli diede un regale splendore quale nessun re, prima di lui, ebbe mai in Israele» (1 Cronache 29:23-25).
Cristo regnerà; il suo popolo Israele gli sarà sottomesso, e anche quelli ch’Egli si degna di chiamare suoi fratelli piegheranno felici le ginocchia dinanzi a Lui, riconoscendo con gioia, nella gloria, alla sua presenza, ch’Egli è il Signore, come lo riconobbero quaggiù durante i giorni del suo rigettamento e della sua assenza.
Troviamo in 2 Cronache 32:23, un’altra gloria futura di Cristo. Sotto il re Ezechia, dopo la liberazione d’Israele, per mezzo del giudizio delle nazioni nella persona dell’Assirio, è detto: «E molti portarono a Gerusalemme delle offerte all’Eterno, e degli oggetti preziosi ad Ezechia, re di Giuda, il quale, da allora, sorse in gran considerazione agli occhi di tutte le nazioni». Le nazioni gli saranno sottomesse.
Infine, è scritto in Filippesi 2:9-11: «Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al disopra d’ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre». Il cielo, la terra e l’inferno si curveranno davanti a Colui che si è abbassato fino alla morte della croce!