Grazia e responsabilità
André Gibert
Essere responsabile significa dover rendere conto dei propri atti e sopportarne le conseguenze. Le parole «responsabilità» e «responsabile» non si trovano nella Bibbia, ma sono implicitamente presenti dall’inizio alla fine. Forse, pur usando questa parola, non ci si rende conto del concetto, e di conseguenza alcune anime risentono un’indifferenza colpevole, o a volte al contrario sono ingiustificatamente tormentate. La Parola di Dio ci mostra che ogni uomo, poiché è una creatura di Dio, è tenuto a comportarsi in un modo che convenga alla condizione nella quale si trova dinanzi a Lui, a cui deve rendere conto (Rom. 14:12). Questa condizione, però, non è la stessa per tutti.
L’uomo così come Dio l’aveva creato era innocente, ma poteva cadere nel peccato. Quanto l’ha mostrato! Era responsabile di mantenere la sua posizione, obbedendo al suo Creatore. Ha mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male ed è caduto, rompendo le relazioni che aveva in Eden con Dio, le quali non saranno mai ritrovate
L’uomo è ormai peccatore, assoggettato alla morte ed al giudizio che la segue. Ha acquisito, con la caduta, la conoscenza del bene e del male, ma la sua volontà pervertita lo spinge a compiere il male, anche se si illude di fare il bene. Nessuno, di tutta la discendenza di Adamo, può sfuggire per mezzi propri da questa condizione, né recuperare l’innocenza persa. Il principio divino afferma che la vita eterna è promessa a colui che persevera nel fare il bene, e che l’ira viene su quello che contende ed è disubbidiente (Rom. 2: 6-12); ma, di fatto «non c’è nessun giusto», nessuno che pratichi la bontà, «tutti hanno peccato» (Rom. 3:9-23). La responsabilità della creatura è sempre presente, gli uomini saranno giudicati secondo le loro opere e nei segreti dei loro cuori (Eccl. 12:14 (*); Rom. 2:16; Apoc. 20:12), ma nessuno di loro può far fronte a questa responsabilità. Invano si direbbe: Ma se sono incapaci, non sono responsabili! Che confusione disastrosa. Si è responsabili non secondo le proprie possibilità o le proprie capacità, ma secondo la posizione in cui ci si trova. Chi ha preso in prestito un milione e che lo ha sperperato, ne è sempre debitore, anche se non ha più un centesimo. Può essere liberato dal suo debito soltanto da una terza persona, sia dal creditore se annulla il debito, sia da un benefattore se gli dona del denaro. L’uomo è rovinato; si è allontanato dal suo Creatore, è decaduto dalla sua posizione originale e non può più riprenderla. Ciò non gli è richiesto, e non può esserlo; non è per questo motivo che è responsabile; è un fatto acquisito sul quale il ritornarci non dipende più da lui; ma la sua responsabilità di creatura rimane, ed ahimè, ha a che fare con una volontà che non può sottomettersi a Dio (Rom. 8:7). Invano l’uomo religioso moltiplica i suoi sforzi; questi non soddisfano la volontà di Dio e non raggiungono né la sua giustizia né la sua gloria. Anzi, testimoniano che la bontà di Dio, che spinge al ravvedimento, è disprezzata. Senza legge o sotto la legge, atei, empii o religiosi, tutti misconoscono la grazia che sola provvederebbe al loro stato. Sono persi. Tali eravamo tutti noi.
Per cambiare condizione occorre accettare, per mezzo della fede, questa verità inesorabile che ci lascia senza speranza, eccetto nella grazia di Dio. Solo quelli che riconoscono il loro stato di perdizione, dopo che la loro coscienza è stata schiarita dalla testimonianza di Dio nella creazione e dalla parola di Dio, nascono di nuovo. Si trovano così in una relazione con Lui molto diversa da quella di Adamo. La loro salvezza non poteva arrivare da loro stessi, è concessa da Dio, che ha promesso e poi dato un Salvatore, il proprio Figlio. Non soltanto i loro atti, macchiati dal peccato, hanno ricevuto il giudizio in Cristo il loro sostituto, ma la loro natura stessa è stata condannata e giudicata sulla croce.
Cristo si è addossato la nostra condizione, ha assunto tutta la nostra responsabilità di figli di Adamo, di peccatori, e vi ha posto fine con la sua morte. Il debito non poteva essere cancellato senza essere pagato, la giustizia di Dio lo esige, ed il suo amore verso gli uomini l’ha pagato al prezzo del sacrificio di Gesù Cristo. Ecco ciò che il credente riconosce con adorazione.
Ci sono stati credenti sotto tutte le dispensazioni, poiché la bontà di Dio ha sempre agito. Ma quando Gesù è venuto, ha portato la grazia in pienezza, come pure la verità: quindi, nel cristianesimo, conosciamo Dio come Padre e lo Spirito Santo ci rivela che Dio ci vede in Cristo, morto per le nostre offese, risuscitato per la nostra giustificazione, ora glorificato alla destra di Dio. E «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2 Cor. 5:17). Il credente non deve più temere il giudizio, ha la vita eterna. Cristo vive in lui. Nulla può fare che egli cessi di essere figlio di Dio. Egli non ha più la responsabilità di peccatore, Cristo l’ha interamente sollevato.
Ma egli ha la responsabilità di un figlio di Dio.
E questa responsabilità è duratura, immutabile, come la sua qualità di figlio di Dio.
Non stanchiamoci di ripetere, un cristiano è qualcuno che è in Cristo, e «qual egli è, tali siamo, anche noi, in questo mondo» (1 Giov. 4:17). Egli non può perdere la sua posizione, come non aveva la possibilità di guadagnarla, ma è quaggiù per dare la prova di questa nuova condizione. «Chi dice di rimanere in Lui, deve camminare com’egli camminò» (1 Giov. 2:6). Egli ha la vita di Cristo per manifestare Cristo. Come un figlio di Dio, è responsabile «di imitare Dio» «camminando nell’amore» come uno dei suoi «figli da Lui amati» (Efes. 5:1). È «luce nel Signore» per comportarsi «come un figlio di luce» (Efes. 5:
, eletto per «ubbidire ed essere cosparsi del sangue di Gesù Cristo»; deve camminare come un «figlio ubbidiente» (1 Pietro 1:14), a chi piace fare la volontà del Padre. Ciò è possibile soltanto se facciamo tacere la nostra propria volontà, l’amore dell’io, tutto ciò che appartiene «alla carne» che rimane in noi finché siamo quaggiù, e le cui membra dobbiamo mortificare, per vivere in quest’amore e quest’ubbidienza.
E come potrebbe essere così al di fuori dalla stessa grazia che ci ha salvati? Si tratta di dimorare nella dipendenza effettiva di colui che conosce tutto, che può tutto, e che ci ama. Separati da Cristo siamo così incapaci di fare fronte alla nostra responsabilità di cristiani, come eravamo incapaci di diventare cristiani coi nostri sforzi. Se la convinzione che siamo responsabili non ci conduce a Cristo da chi dipende per noi qualsiasi forza, essa ci accascerà. Ma se non abbiamo alcuna fiducia in noi, se ci rendiamo conto che siamo senza forza, se abbiamo timore di cadere, ci aggrapperemo alla mano che ci offre. È quando «facciamo conto di essere morti al peccato» che siamo «viventi a Dio, in Cristo Gesù» (Rom. 6:11).
Vivi, né inerti né passivi, «presentate voi stessi a Dio, come di morti fatti viventi» (Rom. 6:13). Le spinte profonde della nostra attività sono salde in noi, come la vita e la natura nuova; esse sono immesse dall’esterno, sistemate dalla potenza che opera in noi, quella dello Spirito Santo. Lo stesso versetto di Filippesi 2 ci ingiunge: «adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore» e dice anche: «infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo». Il desiderio espresso in Ebrei 13:20-21 è che Dio «vi renda perfetti in ogni bene, affinché facciate la sua volontà», e ciò è possibile soltanto se Egli opera «in voi ciò che è gradito davanti a Lui, per mezzo di Gesù Cristo».
Le nostre responsabilità sono immense, sia come individui, sia come assemblea. Differiscono dagli uni agli altri a seconda dei compiti che il Signore dà e che lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno assieme alle capacità necessarie. Come i Leviti che portavano le diverse parti del tabernacolo e gli oggetti santissimi, portiamo il carico prezioso del nome e della gloria di Cristo in questo mondo; la misura della nostra responsabilità è tale. Ci pensiamo abbastanza? Più prenderemo coscienza di queste responsabilità più proveremo che la sola potenza divina è in grado di soddisfarla. Non dimentichiamo mai: Dio è glorificato da noi nella misura in cui lo lasciamo agire in noi. Per mantenerci in questa dipendenza ubbidiente da dove risulta la vita cristiana in pratica, è necessario un intervento in noi da parte della grazia di Dio.
La grazia di Dio. Con la bontà, che ne è la prefigurazione nell’Antico Testamento, non è «La grazia di Dio» la parola maestra della Scrittura? La grazia ci ha salvati, la grazia rende saldo il cuore del riscattato, la grazia ci insegna. La potenza di Dio si esercita con la Parola della sua grazia per edificarci e darci l’eredità di tutti i santificati (Atti 20:32); la stessa Parola opera in noi per farci discernere e respingere tutto ciò che deve esserlo da noi; contemporaneamente la grazia si esercita in alto, dove ha il suo trono, da parte del nostro intercessore divino (Ebr. 4:11-15). Dobbiamo crescere in essa (2 Pietro 3:18), non dimenticarla (*), poiché è per essa che serviremo, in un modo che gli sia piacevole, «con riverenza e timore», questo Dio che «è un fuoco consumante» per colui che disprezza la grazia, oltraggiando il suo Spirito (Ebr. 12:28-29; 10:29).
Questa «vera grazia di Dio», venuta con la verità, inseparabile dalla verità, è perciò legata a ciò che chiamiamo, a ragione, il governo di Dio, ma essa «regna mediante la giustizia» (Rom. 5:21). Tocca a noi sottometterci, per fede, al suo regno. Il principio di qualsiasi responsabilità rimane quello del governo divino: «quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Gal. 6:7-
. Ma impariamo - e le nostre anime non ne sarebbero afferrate? - che il governo inflessibile di Dio verso i suoi si esercita sempre per il loro bene, in disciplina paterna. C’è per l’anima che osserva i suoi comandamenti la comunione felice goduta fin d’ora (Giov. 14:21), ed il peso eterno della gloria prodotto attraverso e per mezzo della tribulazione (2 Cor. 4:17). Se Dio utilizza la briglia ed il morso, e fa uso di castighi per spezzare la nostra volontà ribelle, lo scopo è di farci partecipare alla sua santità (Ebr. 12:5-10). Egli lascia, secondo la legge di questo governo saggio, i nostri errori e le nostre mancanze dare i loro tristi frutti nella misura in cui Egli sa che è necessario, e perfino dopo che siamo stati restaurati. Però qualunque siano queste sanzioni alla nostra responsabilità, l’anima scrutata, penetrata da un timore salutare, è confusa di incontrare non soltanto la misericordia e la bontà che durano in eterno, ma anche la grazia pura e sovrana di Dio. «È la grazia che sorge e rimane sopra tutto ciò che l’uomo è, e che, quindi, produce la fiducia, non in se stesso, ma in Dio come Colui alla grazia del quale si può affidare, Colui che è pieno di grazia, perfetto in grazia. Questa grazia è sopra tutto... Essa crea la fiducia secondo la misura di cui essa agisce.» (J.N.D.).
Dio vuole per noi la felicità che accompagna la fiducia ed il timore coi quali la fede risponde a questa grazia. Compiere la volontà di Dio è il desiderio della nuova natura, che la vecchia contraria continuamente. Di tutte le sanzioni che possono essere inflitte alle nostre infedeltà, c’è ne una più temibile della perdita della Sua comunione? I nostri cuori vi sono sensibili? Cosa ne sarebbe se Egli ci abbandonasse a noi stessi ?
Nello stesso tempo, ricompense sono promesse alla fedeltà. Sono incoraggiamenti nel cammino, come gli avvertimenti sono branditi per prevenire le nostre cadute. Tutto sarà manifestato dinanzi al tribunale di Cristo, dove ciascuno riceverà «la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male» (2 Cor. 5:10; Rom. 4:7; 1 Cor. 3:14-15). Sarà la conclusione delle responsabilità di quaggiù. I figli di Dio che compariranno là non vedranno affatto la loro qualità di figli chiamata in causa: saranno già simili a Cristo, vestiti di corpi gloriosi. Ma sarà chiamata in causa la misura di cui essi godranno per sempre delle benedizioni che si ricollegano a questa qualità di figli di Dio. Tutto sarà alla gloria di Cristo. Ma «se l’opera che uno ha costruita... rimane, egli ne riceverà ricompensa; se l’opera sua sarà arsa, egli ne avrà il danno; ma egli stesso sarà salvo; però come attraverso il fuoco» (1 Cor. 3:14-15). È concepibile che il credente, mentre conosce l’amore di Dio che è nel Cristo Gesù, passa la sua vita presente contentandosi di sapere che dopo tutto sarà salvato, anche se sia come attraverso il fuoco? Egli avrà sacrificato beatitudini inestimabili ed eterne per soddisfazioni vane e temporali! Non desidereremmo avere la parte più ricca possibile in Cristo? Se non è il caso, affrettiamoci ad esaminare seriamente il nostro stato spirituale.
Tuttavia, non è nella prospettiva di ricompense, quaggiù o in alto, o nella ricerca di corone, che sta il segreto della potenza, ma nel fatto di deviare i nostri sguardi da noi stessi e dalle cose presenti per fissarli su Cristo. È nel Cristo Gesù che Dio, presentando i risultati della sua bontà verso di noi, mostrerà «nei tempi futuri l’immensa ricchezza della sua grazia».