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 Il peccato a morte di R. Bracco

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Mimmo
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Il peccato a morte di R. Bracco Empty
MessaggioTitolo: Il peccato a morte di R. Bracco   Il peccato a morte di R. Bracco Icon_minitimeMer Mar 15 2023, 04:47

Probabilmente questo capitolo presenta l’argomento intorno al quale si concentra in maniera più accentuata l’interesse delle comunità cristiane. Il problema della disciplina ecclesiastica è stato sempre uno dei più ardui e non possiamo negare che l'elemento che maggiormente ha reso difficile la soluzione di questo problema è costituito dalla classificazione del peccato.

In tutti i secoli si è ripresentata una domanda profondamente impegnativa per i conduttori delle comunità cristiane: Come si possono classificare i peccati? Quali sono i peccati perdonabili e quali quelli imperdonabili?

Qual'è il peccato che non uccide la vita spirituale e qual'è il peccato che può essere definito mortale?

Ripetiamo: questo problema non ha avuto soltanto un carattere teologico, ma più spesso ha rivestito un carattere comunitario, perché si è presentato, intimamente congiunto, con quello della disciplina nelle chiese.

Anche nella nostra generazione i conduttori cristiani si sentono profondamente impegnati nella soluzione di questo problema che investe direttamente l'esercizio del loro ministerio. Essi comprendono profondamente l'importanza del giudizio che sono chiamati ad esprimere nei confronti di qualsiasi manifestazione peccaminosa e perciò desiderano assumere, di fronte a questo problema, una posizione profondamente biblica.

In altre parole essi vogliono imparare a distinguere la differenza che esiste fra un peccato e l'altro e, sopratutto, vogliono imparare a riconoscere il peccato mortale nel novero multiforme, delle azioni peccaminose.

Questa aspirazione o questa ricerca è pienamente giustificata oltre che dall'importanza del problema, anche dalla responsabilità cristiana che deriva dall’espletamento del ministerio e perciò non loderemo mai abbastanza quei ministri che, anziché lasciarsi guidare da influenze negative, ricevute probabilmente dall'ambiente cattolico dal quale provengono, cercano di approfondirsi nella conoscenza biblica di questo soggetto.

E' importante, prima di ogni cosa, ricordare che l'essenza del peccato non cambia mai. Tutti i peccati hanno la stessa essenza; potremmo quasi dire: sono formati tutti con la medesima materia.

Qualsiasi peccato attivo o passivo, contro il corpo o contro lo spirito, impulsivo o riflessivo è sempre costituito della medesima essenza: la negazione del bene. La Bibbia ci dichiara che il peccato "è la trasgressione della legge". Tutti i peccati rappresentano la violazione di un'unica legge, data da un solo legislatore. Non importa se questa legge è rappresentata, nel momento della violazione, dalla Parola rivelata o dalla luce della coscienza, essa è sempre la legge di Dio cioè l'espressione codificata del bene.

Quindi, per fare una classificazione del peccato, bisognerebbe prima fare una classificazione degli articoli della legge divina, cioè bisognerebbe stabilire quali, fra gli articoli della volontà di Dio, espressi nella sua legge siano più importanti e quali meno importanti.

Una critica o un giudizio della legge di Dio appare addirittura azione sacrilega e, d'altronde, la Bibbia ci ricorda che Colui che ha dato un comandamento ha dato anche l'altro ordinando che "tutta la sua legge sia strettamente osservata" perché se "noi rompiamo un capo della legge, siamo colpevoli di tutti".

Quindi i peccati non possono essere classificati per una differenza esistente nell’essenza di essi, come i comandamenti non possono essere catalogati secondo una graduatoria di valori.

L'unica cosa che possiamo affermare è: come tutta la legge divina si compendia in due soli comandamenti di una unica essenza, così tutti i peccati si racchiudono in due trasgressioni di essenza identica. Tutti i comandamenti sono uguali nella loro essenza e tutti i peccati hanno un'essenza soltanto.

Questa affermazione ci fa intravedere l'inequivocabile verità che la differenza fra un peccato e l'altro non viene determinata dall'essenza del peccato stesso o, come abbiamo detto prima, per esemplificare, dalla materia della quale è composto il peccato che non cambia mai fra un'azione peccaminosa ed un'altra totalmente diversa nell'aspetto esteriore, ma una eventuale differenza viene determinata unicamente dalla "posizione" del peccatore nei confronti del peccato.

Se osserviamo attentamente le differenziazioni giuridiche che venivano fatte nell'applicazione della legge mosaica, possiamo constatare che il concetto dell'unicità dell'essenza del peccato e quello della diversità della responsabilità del peccatore, in rapporto alla sua attitudine, sono ripetutamente affermati. La legge non puniva in maniera diversa i diversi peccati perché gli uni erano differenti dagli altri, per essenza o per natura, ma soltanto perché l'esecuzione di essi richiedeva una diversa attitudine da parte dei trasgressori.

Stabilito il principio che tutti i peccati rappresentano una negazione del bene e costituiscono una trasgressione della legge, cerchiamo di comprendere attraverso quale processo si determina la differenziazione fra peccato perdonabile e peccato imperdonabile.

Peccare vuol dire letteralmente: inciampare (dal latino pedis – piede). Questo termine è entrato successivamente nella lingua volgare con il significato di "macchia" e nel linguaggio ecclesiastico con il significato di "errore".

Noi dobbiamo perciò cercare di comprendere quando, inciampando, viene esclusa ogni possibilità di rialzarsi o quando, macchiandosi, viene esclusa ogni possibilità di purificarsi, oppure quando, errando, viene esclusa ogni possibilità di correggersi.

Per cercare di comprendere questa solenne ed importante verità possiamo servirci dei termini

biblici che rappresentano il peccato e cioè: ma malattia, azione, posizione, pensiero.

Il peccato infatti ci viene costantemente presentato come una malattia, o come un’azione, o come una posizione, o come un pensiero,

Procediamo per ordine nel nostro esame. Il peccato è una malattia spirituale e Gesù stesso ci ha dichiarato che Egli è venuto per esercitare la nobile professione di medico a beneficio dei malati cioè dei peccatori.

Alcuni hanno accettato le sue cure, mentre altri non le hanno ancora accettate. I primi sono stati sanati mentre i secondi sono rimasti, fino ad oggi, addogliati dal loro peccato. Ma oltre a questi ce ne sono anche degli altri che non lo hanno accettato con la risoluta determinazione di non accettarLo mai: costoro "moriranno nei loro peccati" o, come potremmo anche dire, in conseguenza "del loro peccato". Attenzione, non moriranno in conseguenza "dei loro" peccati perché quelli sono stati vinti da Cristo, ma moriranno in conseguenza del peccato di non aver voluto accettare Cristo. Questo è peccato volontario, peccato a morte.

Ma esaminiamo brevemente le varie circostanze che si possono verificare a coloro "che sono stati guariti" dal Medico Divino. Essi possono cadere nuovamente nella malattia e questa può essere soltanto passeggera o può anche condurli a morte.

Noi non facciamo mai la prognosi di una malattia in base al nome di essa, perché l'esperienza umana ci ha insegnato che talvolta una malattia orrida è stata validamente superata, mentre una malattia trascurabile si è conclusa, in maniera letale.

La prognosi, cioè l'esito della malattia, viene pronunciata, facendo un accostamento fra la malattia e le reazioni dell'organismo. Se l'organisino reagisce energicamente, e in maniera positiva, riducendo progressivamente la causa e gli effetti del male, viene pronunciata, una prognosi benigna: l'ammalato si muove verso la guarigione.

Se invece l'organismo non reagisce, la malattia conduce alla morte.

La morte quindi è si il risultato della malattia, ma in quanto la malattia ha potuto svolgere la sua azione malefica sopra un organismo incapace di reagire, e perciò potremmo anche affermare che la morte è venuta non dalla malattia, ma dall'inerzia dell'organismo.

"C'è un peccato che conduce a morte" afferma l'Apostolo Giovanni, e noi possiamo vedere in questo inciso la sintesi del nostro esempio e leggere: "C'è una malattia che conduce a morte ...".

Quale peccato, quale malattia? Non importa sapere il nome, perché si può morire con qualsiasi peccato, come si può morire di qualsiasi malattia. Il peccato conduce a morte quando rimane incontrastato nell'anima senza che questa sappia o voglia reagire per ridurlo ed eliminarlo.

L'inerzia dell'anima, cioè la mancanza di reazione, dimostra l'assenza nell'anima della potenza guaritrice di Cristo e in quell'anima il peccato è a morte perché essa non sa più ristabilire e far trionfare la legge della vita.

Non possiamo dire che la tubercolosi o il cancro fanno inevitabilmente morire; un organismo ha risorse insospettate che possono debellare in modo meraviglioso queste malattie, benché purtroppo milioni d'individui vengono condotti annualmente alla tomba da esse.

Così non possiamo dire che un qualsiasi specifico peccato conduca inesorabilmente all'inferno, perché l'anima che è stata potenziata dalla grazia divina può mettere in azione risorse che sorpassano la nostra immaginazione.

Quando un esame clinico ci dichiara la guarigione del canceroso, dobbiamo arrenderci alla evidenza dei risultati e delle analisi di laboratorio e somigliantemente, quando il ravvedimento sincero e la reintegrazione genuina del fratello sconfitto dal peccato ci dimostrano la sua guarigione, non possiamo che inchinarci commossi e riverenti davanti a Colui che ha stabilito le leggi della vita.

L’esegesi del passo di Giovanni ci autorizza ampiamente a dichiarare che l'Apostolo non si riferisce ad "una azione" ma ad "una condizione", cioè non si riferisce "ad una malattia" ma "all'attitudine dell'ammalato". Per Giovanni il peccato che "conduce a morte" è visibile, in questo suo penoso processo di rovina progressiva, che può essere assomigliato all'inerzia fisica dell'ammalato che non può più vincere, ma è vinto dalla malattia.

E' interessante notare che Giovanni non vieta di pregare per questi poveri ammalati, ma solo raccomanda di concentrare lo sforzo dell'orazione a favore di quanti manifestano risorse di reazione nella loro anima; a favore di quanti insomma cadono in un peccato o in una malattia che "non conduce" verso la morte. Diciamo questo per ricordare che mentre l'inerzia è sempre chiaramente visibile, la reazione benefica può divenire visibile soltanto dopo uno sviluppo del male.

E' scritto di Esaù che "non trovò luogo a pentimento" e detto anche di Saulle che non seppe ravvedersi del suo orgoglio..

Le malattie di questi due uomini non erano classificate fra le più gravi, ma essi perirono. I loro peccati li condussero a morte in conseguenza del fatto che non intervenne nessuna reazione benefica per ridurre ed eliminare il male nel quale erano caduti.

In conclusione la malattia può essere dichiarata mortale quando l'organismo invece di reagire, volgendosi verso la vita, rimane nel male e lo asseconda compiendo la strada verso la morte. Parimenti, il peccato può essere dichiarato "a morte" quando non è seguito da una reazione dell'anima che, nel volgersi nuovamente verso la vita, lo superi e lo vinca.

La diversità di peccato può aver valore soltanto nel senso che certe specie di immoralità sono la conseguenza diretta "di una condizione di predisposizione" lungamente assecondata e non nel senso che un peccato si differenzi dall'altro per la propria essenza intrinseca. In altre parole, può essere ammessa una differenza di peccato, nella stessa maniera che esiste una differenza di malattia, perché ci sono peccati e malattie che prima di manifestarsi hanno lungamente covato nell'individuo distruggendo le sue resistenze, mentre ci sono peccati e malattie che insorgono senza precedenti prossimi o remoti, ma questa ammissione non annulla l'affermazione che qualsiasi malattia può essere vinta nella guarigione e qualsiasi peccato può essere superato nella potenza della grazia in azione in una anima capace di reagire.

Paolo non esclude la salvezza per l'incestuoso di Corinto (1° Corinzi 5:5) e non esclude la guarigione ai poveri ammalati di fornicazione, dissoluzione ed immondizia (2° Corinzi 12:21) benché, naturalmente, raccomandi la più severa disciplina ecclesiastica nei confronti di quanti camminano, a causa di queste malattie, verso la morte (1 Corinzi 5:11-13).

Anche nell'Apocalisse troviamo questa affermazione categorica: "Tu lasci che Iezabel seduca i miei servitori per fornicare, e mangiare dei sacrifici degli idoli. Ed io le ho dato tempo da ravvedersi dalla sua fornicazione".

Possiamo compiere delle autentiche ginnastiche di esegesi per cercare di interpretare tutti questi passi, allo scopo di cambiare il senso, ma questo non ci permetterà di annullare il fatto che la Parola di Dio ci dimostra che anche quelli che noi consideriamo i più gravi attentati contro la morale, possono essere superati e vinti quando l'anima possiede la potenza della vita e della grazia per reagire.

Ci siamo indugiati lungamente sull'argomento, per esaminarlo in questo suo primo aspetto, perché pensiamo che esso c'introduca profondamente nella questione, onde poterla esaminare anche sotto gli altri aspetti biblici.

Il peccato non è soltanto una malattia, ma è anche un'azione e precisamente un'azione compiuta dall'uomo in opposizione al bene.

E' importante sapere se esiste una "azione" (e quando esiste) che determina la morte dell'anima. Matteo 12:30 ed Ebrei 10:26, sembrano rispondere a questo drammatico interrogativo.

Ambedue questi passi ci parlano di un' "azione" che l’uno definisce "bestemmia contro lo Spirito Santo", e l'altro "peccato volontario". Queste due azioni sono dichiarate assolutamente imperdonabili!

L'esame, anche superficiale, di questi due passi ci conduce di nuovo alla constatazione già fatta: non è la natura del peccato che determina l'imperdonabilità, ma è la posizione del peccatore nei confronti del peccato o, piuttosto, nei confronti della grazia vivificante di Cristo.

I due passi biblici, infatti, non ci definiscono le caratteristiche dell'azione, non ci dicono cioè come è formato o quale fisionomia hanno la bestemmia contro lo Spirito e il peccato volontario, ma ci definiscono semplicemente l'attitudine del peccatore in "una qualsiasi azione".

E' evidente che la Scrittura qui ci parla di un'azione o, forse di una serie di azioni, che portano l’anima contro Cristo o lontano da Cristo.

Cristo soltanto è la purificazione ed il perdono del peccato; fuori di Cristo e lontano da Cristo c'è soltanto la morte, ed è chiaro perciò che quell'azione che pone l'anima contro Cristo, cioè in lotta con l'opera della Purificazione, allontana ogni possibilità di perdono.

La "bestemmia contro lo Spirito" rappresenta perciò l'opposizione all'opera dello Spirito che vorrebbe applicare la potenza della grazia all’anima turbata dal peccato e il "peccato volontario" rappresenta il rifiuto del sacrificio propiziatorio compiuto da Cristo per i vicini e per i lontani, per i pagani e anche per gli Ebrei ai quali l'epistola in questione s'indirizza.

Non bisogna dimenticare infatti che le due solenni ammonizioni furono rivolte ai Farisei che cercavano di denigrare e quindi respingere l'opera di Cristo manifestata per lo Spirito, e ai credenti Ebrei che erano insidiati dai propri connazionali, i quali cercavano di indurre i cristiani ad abbandonare "l'unico sacrificio propiziatorio" per farli ritornare ai molti sacrifici figurativi della legge mosaica dalla quale si erano allontanati.

Anche il "peccato come azione" ci conduce perciò alla conclusione già raggiunta e cioè ci conduce ad affermare che soltanto l'anima che definitivamente si pone contro Cristo, si esclude automaticamente dalla vita.

Nell'esaminare l'argomento dal terzo punto di vista e cioè dal punto di vista del "peccato come posizione" possiamo vedere che la conclusione non si modifica.

Il peccato è una malattia, è un'azione ed è, sopratutto, una posizione. Noi possiamo essere volti verso il bene o possiamo essere volti verso il male: la nostra posizione può essere giusta o può essere peccaminosa. C’è però "un momento" nel quale la nostra posizione può divenire decisiva o per il bene o per il male.

Noi vogliamo sopratutto indagare questo secondo aspetto magistralmente condensato nelle parole: "l'uomo il quale essendo spesso ripreso, indurisce il suo collo, sarà fiaccalo senza rimedio".

Ci sono due passi neotestamentari che meglio di altri affrontano e trattano questo argomento ed essi sono: Ebrei 6:6 e 2° Pietro 2:20. L'esegesi di questi due passi non presenta difficoltà. Nessuno dei due ci da l'idea che "la morte" possa immancabilmente sopravvenire in conseguenza di uno specifico peccato che sia individuabile in precedenza. Questi due passi ci confermano che il "peccato a morte" è costituito da un voltar le spalle a Cristo e alla grazia.

Il primo infatti ci illustra l'argomento con l'esemplificazione del "campo lavorato e adacquato dalla pioggia che produce spine" ed il secondo si spiega da se con l'illustrazione "della porca lavata che torna a voltolarsi nel fango".

Quindi il peccato non è rappresentato da "una spina" o da "una macchia di fango", ma da una condizione definitiva di anarchia spirituale e di contaminazione morale. Il "cadere" o "l'essere vinti" di questi due passi si riferiscono chiaramente ad una posizione di aperta e dichiarata ostilità alla grazia già conosciuta, realizzata e goduta.

L'esperienza cristiana ci aiuta a comprendere questi concetti, attraverso il doloroso esempio di quei retrogradi induriti, la cui condizione morale è divenuta realmente sette volte peggiore della primiera.

Se esaminiamo il peccato come pensiero, cioè come errore della mente, noi possiamo ancora una volta constatare che esso diviene imperdonabile quando conduce l'anima ad una forma di eresia, che la pone irrimediabilmente contro Cristo.

Tutti possiamo sentire in maniera diversa da altri intorno alla concezione del bene e perciò intorno alla dottrina cristiana, ma questo non vuol dire,che tutti siamo preda di errore mortale. Quando però il nostro errore dichiara guerra alla verità e diviene cronico in noi, genera la morte spirituale dell'anima.

Lo sviamento accidentale, l’errore momentaneo, il pensiero contingente ottenebrato non costituiscono, per loro stessi, peccati a morte.

Il peccato a morte è chiaramente visibile ed individuabile, ma non nella malattia, nell'azione, nella posizione o nel pensiero in quanto manifestazioni di peccato, bensì nell'attitudine dell'anima peccatrice verso la luce di Dio, il sangue di Cristo, la grazia salvatrice, lo Spirito Santo. Quando l'anima prende posizione decisa di ostilità verso queste realtà spirituali, ha in se stessa il peccato che conduce a morte.

Noi crediamo che questa breve esposizione possa aiutarci a comprendere il significato dei termini usati ed abusati : "peccato volontario" o "peccato imperdonabile" e possa sopratutto convincerci che un peccato può essere sempre coperto dal sangue di Cristo se l'anima sa ritornare umiliata a Lui, cioè se l'anima sa "trovare luogo a pentimento".

Gesù ci ha insegnato a perdonare il fratello offensore fino a tanto che egli sa ritornare a noi pentito ed umiliato e noi non vogliamo commettere il sacrilegio di pensare che Cristo non "sappia" esercitare l'opera di misericordia che ci ha insegnato a manifestare.

Alcuni ostentano una misericordia più profonda di quella di Dio e dichiarano che la severità del loro giudizio non procede dal sentimento del loro cuore, ma dall'ordine delle Scritture. In altre parole dichiarano: Noi perdoneremmo, ma Dio ci comanda di giudicare, condannare ed espellere…

Questa posizione e questo pensiero sono peccaminosi e noi speriamo sinceramente che questi credenti si sapranno ravvedere dal loro sviamento. Sviamento che è tanto più manifesto in quanto, questi stessi che giudicano ed espellono, mantengono rapporti d'intimità cristiana e di comunione fraterna con molteplici campi di maledizione, coperti definitivamente dalle spine dell'avarizia, della maldicenza e dell'orgoglio.

Per chiudere, vogliamo ricordare che la visione esatta della dottrina cristiana che ci dimostra la misericordia divina non sarà mai, come taluni temono, incoraggiamento al peccato. L'anima sincera onora Iddio perché il seme di Lui dimora in essa. D’altronde qual'è l'uomo che procacci di contrarre una malattia nella persuasione dell'efficacia della scienza medica?

No, come non ci sono individui desiderosi di ammalarsi, non ci sono veri cristiani bramosi di peccare perché gli uni e gli atri si preoccupano molto più di preservare perfetta e costante salute, che non di esperimentare la potenza dei farmaci a disposizione.

Il peccato separa sempre dalla vita, ma questa separazione è temporanea per qualsiasi peccato all’infuori di quello che conduce a morte cioè che toglie all'anima la capacità di umiliazione e di ravvedimento; la capacità insomma di credere alla potenza di Cristo e di giungere al sangue di Cristo (1° Giovanni 1:7,Cool.

La conclusione di questo capitolo, che rappresenta l'ultimo del nostro modestissimo studio, lascia senza soluzione il problema disciplinare nel seno delle comunità. Precisiamo che ciò non costituisce il risultato di una svista perché è stata nostra precisa intenzione di trattare il problema del peccato al di fuori dell'esercizio del ministerio disciplinare.

Noi crediamo che i conduttori delle comunità potranno sempre, con l'ausilio di una chiara conoscenza dottrinale e, soprattutto per la guida dello Spirito Santo, risolvere i particolari casi comunitari che richiedono l'amministrazione qualche volta ingrata dell'autorità e della disciplina.

Il presente studio quindi si propone di essere esclusivamente di aiuto per conseguire un approfondimento in un soggetto dottrinale che investe tutta la vita cristiana.

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