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 5. L'attesa del Signore e la vita c

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girolamo
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Messaggio5. L'attesa del Signore e la vita c

5. L'attesa del Signore e la vita cristiana — 1 Tessalonicesi 3:10-13

Abbiamo già dimostrato che l'attesa del Signore non impegnava i Tessalonicesi solo al momento della loro conversione; la persecuzione che ne segui diede l'occasione per manifestare «la pazienza» della loro speranza. Lo stesso Paolo, benché fosse invecchiato, benché fosse un padre e non un bambino nella fede, aveva sempre camminato come loro nell'attività del «primo amore»; gli anni non avevano indebolito la freschezza della sua vita cristiana.

Il cap. 2 ci presenta l'apostolo nella sua «opera di fede», nelle «fatiche del suo amore», nella «costanza della sua speranza»; poiché, quando Satana cercò di impedire il suo ministerio (v. 17, 20), egli aveva davanti agli occhi la venuta del Signore, e sapeva che a quel momento, e soltanto allora, avrebbe ricevuto la ricompensa del suo servizio.

«Qual'è infatti la nostra speranza, o la nostra allegrezza, o la corona di cui ci gloriamo? Non siete forse voi, nel cospetto del nostro Signore Gesù quand'egli verrà?» (2:19). È così che la venuta del Signore, la quale regolava tutta la condotta di quei credenti, che pure erano ancora bambini nella fede, esercitava la stessa influenza benedetta su tutto il ministerio del grande apostolo delle nazioni. Essendo della stessa famiglia, possedevano, malgrado il grado di conoscenza così diverso, lo stesso segreto della vita cristiana. Il loro cristianesimo era molto semplice: conoscevano e amavano personalmente il Signore e vivevano nella sua attesa giorno dopo giorno!

Il passo che è il soggetto principale di questa meditazione (3:10,13) ci mostra che la fede dei Tessalonicesi poteva incorrere in qualche pericolo. Qui «la fede» non è solo l'accettazione della testimonianza di Dio riguardo all'opera di Cristo, poiché una volta ricevuta nel cuore questa fede è completa; ma è anche l'insieme della dottrina cristiana, ricevuta per fede; da questo punto di vista a loro mancava qualcosa (v. 10). Tutto l'insegnamento di quest'epistola prova che i dettagli della loro speranza non erano ancora completi. Satana cercava di sfruttare questa lacuna. Vediamo, al cap. 4, che erano in pericolo di essere «contristati come gli altri che non hanno speranza» e, nella 2a epistola, il Nemico era riuscito in qualche modo a indebolire la loro attesa. Egli insinuava che «il giorno del Signore», cioè il giorno del giudizio, era imminente (2:2) perché attraversavano delle serie tribolazioni; e che si erano sbagliati aspettando Gesù dal cielo per liberarli dall'ira a venire.

I credenti che non sono famigliari con il pensiero della venuta del Signore corrono il rischio di cadere nei tranelli del tentatore, e di rendere così vano tutto il lavoro dello Spirito di Dio per loro (1 Tess. 3:5). Se perdiamo la conoscenza della speranza cristiana, l'anima nostra perderà altre elementari verità cristiane che sono alla base della fede. La domanda: «Dov'è la promessa della sua venuta?» serve da fondamento al materialismo degli schernitori del tempo della fine (2 Pietro 3:4).

Questa «attesa» di Cristo che influisce sul nostro servizio e sostiene la nostra fede, agisce anche su altri elementi della nostra vita cristiana; si può persino affermare che essa non è estranea ad alcuno di essi. È così che al capitolo 3 della nostra epistola l'apostolo non può parlare della santità senza introdurre il soggetto della venuta del Signore. «Quant'è a voi, il Signore vi accresca e vi faccia abbondare in amore gli uni verso gli altri e verso tutti, come anche noi abbondiamo verso voi, per confermare i vostri cuori, onde siano irreprensibili in santità nel cospetto di Dio nostro Padre, quando il Signor nostro Gesù verrà con tutti i suoi santi» (v. 13).

Non penso che la venuta del Signore sia qui la manifestazione di Gesù Cristo con tutti i suoi santi davanti al mondo, ma davanti al Padre. Questo passo ce lo presenta nell'atto di venire, ma come manifestato «nel cospetto di Dio nostro Padre». La prima tappa del nostro viaggio celeste è il nostro incontro con Lui, «sulle nuvole, nell'aria»; ma la seconda è il suo arrivo con noi nella casa del Padre e alla sua presenza. È la che noi saremo ciò che resteremo per sempre, cioè santi e irreprensibili nell'amore, come Lui; saremo non soltanto in Cristo, ma con Cristo e simili a Lui. È con questo carattere che il Signore presenterà la Chiesa a suo Padre, come pure la presenterà a se stesso. È di là che poi usciremo con Lui per essere manifestati davanti al mondo.

Fermiamo un momento la nostra attenzione su questi passi. In essi vediamo che Paolo desiderava per i santi di Tessalonica un esercizio sovrabbondante dell'amore fraterno, e ciò non solo nella cerchia ristretta delle loro relazioni cristiane, ma «verso tutti».

Potessimo oggi gustare questo amore che si manifesta nei confronti di tutti i membri di Cristo! Quante volte si trattano da estranei, come se non fossero fratelli, i figli di Dio che non si radunano con noi e coi quali non si segue lo stesso cammino! E quante volte l'amore vero è sostituito da una specie di amicizia, ed è poi quella che unisce i membri delle diverse sette che dividono la povera Chiesa del Signore!

L'apostolo era stato, agli occhi dei Tessalonicesi, un modello di questo amore di cui parla. Poteva dire in verità: «Come anche noi abbondiamo verso voi», poiché lo aveva loro provato, «come nutrice che cura teneramente i propri figliuoli». E aggiunge: «Così, nel nostro grande affetto per voi, eravamo disposti a darvi non soltanto l'Evangelo di Dio, ma anche la nostra propria vita, tanto ci eravate divenuti cari». Il lavoro dell'apostolo in mezzo a loro era stato la vera «fatica dell'amore»: «Poiché, fratelli, voi la ricordate la nostra fatica e la nostra pena; egli è lavorando notte e giorno per non essere d'aggravio ad alcuni di voi, che v'abbiam predicato l'Evangelo di Dio» (2:2,9).

L'esercizio dell'amore fraterno ha delle conseguenze infinitamente preziose per lo stato delle anime nostre; lo possiamo ancora constatare dalle parole dell'apostolo: «Per confermare i vostri cuori, onde siano irreprensibili in santità nel cospetto di Dio nostro Padre». Queste due cose, con l'amore che ne è la sorgente, caratterizzano la persona di Cristo: Egli è amore, è il Santo, è irreprensibile, lui che «non ha fatto nulla di male» (Luca 23:41), che non ha mai commesso peccato (1 Pietro 2:22).

Queste cose mostrano anche quale sia la nostra posizione attuale in Cristo. Dio, che ci vede in Lui, ci vede necessariamente come Lui: «Siccome in Lui ci ha eletti, prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi, e irreprensibili dinanzi a Lui in amore» (Efes. 1:4).

Queste cose mostrano anche la nostra condizione futura: «Per farvi comparire davanti a sé santi e irreprensibili» (Col. 1:22). «Cristo ha amato la Chiesa... affin di far egli stesso comparire dinnanzi a sé questa Chiesa, gloriosa, senza macchia, senza ruga o cosa alcuna simile, ma santa e irreprensibile» (Efesini 5:27).

Ma un credente non può limitarsi a sapere che è perfetto in Cristo e che sarà perfetto nella gloria. Avendo in sé la vita divina cercherà di realizzarla praticamente quaggiù. Tale fu innanzitutto il cammino dell'apostolo: «Voi siete testimoni, e Dio lo è pure, del modo santo, giusto, e irreprensibile col quale ci siamo comportati verso voi che credete; e sapete pure che, come fa un padre coi suoi figliuoli, noi abbiamo esortato, confortato e scongiurato ciascuno di voi» (1 Tess. 2:10). L'amore per i santi era stato la sorgente della sua condotta nei loro confronti.

Tale doveva essere anche il cammino dei Filippesi; l'apostolo scrive loro: «E la mia preghiera è che il vostro amore sempre più abbondi... affinché siate sinceri (altri traduce «puri») e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Fil. 1:9-10).

Questa verità riguardo al nostro cammino cristiano è molto mportante. Ricordatevi che la nostra santità pratica proviene dal nostro amore e che essa non esiste quando questo è assente. L'amore fraterno ci lega alla famiglia di Dio e ci santifica, separandoci moralmente da ciò che non è nato da Lui. Da quel momento non potremo amare né coltivare ciò che il mondo ricerca, e troveremo il nostro piacere nelle cose celesti con coloro che le conoscono e le amano. Quando l'amore fraterno si indebolisce e il credente non vi abbonda più, un certo vuoto si produce nel suo cuore; il mondo vi trova allora un posto da occupare e si affretta ad approfittarne. Vi si introduce prima silenziosamente, in segreto, per così dire, ma presto regna da padrone e la santità, la separazione pratica per Dio, finisce per essere un termine senza più alcun senso.

Ritorniamo adesso al passo iniziale: «Per confermare i vostri cuori, onde siano irreprensibili in santità nel cospetto di Dio nostro Padre». In questo caso non si tratta del nostro cammino, come in Fil. 1:9-10, ma dello stato dei nostri cuori. L'esercizio dell'amore fraterno rinfranca il cuore dei fedeli che si trovano in uno stato irreprensibile e nella santità davanti a Dio, dando ad essi la felice conoscenza di queste cose. Ma come potremmo noi essere soddisfatti del modo con cui rappresentiamo Cristo quaggiù? Sarebbe essere soddisfatti di noi stessi, e giungere alla pericolosa illusione di poter essere perfetti in questo mondo. È per questo che Paolo aggiunge: «Quando il Signor nostro Gesù verrà con tutti i suoi santi». Troveremo la perfezione in queste cose soltanto alla venuta del Signore; e, sostenuti da questa speranza, la realizziamo più completamente aspettando, da un momento all'altro, la piena realtà. Gli occhi fissi su Gesù, ci sforziamo di essere già trovati in Lui tali quali saremo quando Egli verrà con tutti i suoi santi.

Non posso e non devo avere una misura di santità inferiore a quella. Come posso non camminare nell'amore quando penso che il Signore Gesù sta per introdurci tutti insieme, con lui, alla presenza di Dio Padre? Allora lo scambio d'amore tra Cristo e noi, e tra noi e Dio, sarà completo e riempirà eternamente la casa del Padre col suo profumo! Come si può non vivere oggi nella santità se aspettiamo da un momento all'altro la sua venuta, dove il carattere di «tutti i santi» rispecchierà perfettamente il Suo?

L'attesa del Signore è la risorsa, la forza, l'incoraggiamento alla santità del nostro cuore e del nostro cammino. Possiamo così ripetere con l'apostolo le preziose parole con cui termina questa epistola: «Or, l'Iddio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l'intero essere vostro, lo spirito, l'anima ed il corpo, sia conservato irreprensibile, per la venuta del Signor nostro Gesù Cristo. Fedele è Colui che vi chiama, ed Egli farà anche questo». Amen.

Abbiamo fatto notare che la santità non può essere disgiunta dall'amore che ne è il punto di partenza; né dalla venuta dei Signore che ne è il punto d'arrivo. Questa venuta influenza anche tutte le altre qualità cristiane: la purezza, la sobrietà, la giustizia, la pietà (1 Giov. 3:3; Tito 2:11-13). Tale sarà la nostra condotta se aspettiamo la «beata speranza».

Dico ancora qualche cosa sull'influenza che la venuta del Signore deve esercitare sui nostri sentimenti. Non parlo dei nostri affetti e della nostra gioia, che sono certamente legati all'attesa del Salvatore: conoscerlo significa amarlo; amarlo significa desiderarlo e rallegrarsi della sua venuta. Ma faccio allusione a ciò che ci è detto in Filippesi 4:5: «La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino». In questo caso la mansuetudine è il carattere d'un uomo che non insiste sui propri diritti anche se, moralmente, nessuno è autorizzato a violare i miei diritti (per esempio a impadronirsi di ciò che mi appartiene, a cacciarmi da casa, a privarmi della mia famiglia, della mia libertà, ecc...). Il Signore stesso aveva dei diritti quaggiù; era re ed era nato per questo; poteva pretendere di avere il potere, il possesso di tutte le cose, i più alti onori, l'omaggio di tutti. Ma ha Egli rivendicato i suoi diritti? No! Si è lasciato accusare ingiustamente, giudicare in modo iniquo, e non ha mai protestato. Ha visto che gli prendevano il suo regno, la sua eredità, la sua dignità, la sua libertà, la sua vita; ma «non aperse la bocca». Egli è stato come una pecora muta dinnanzi a chi la tosa (Isaia 53).

Facciamo così anche noi? Il minimo attacco ai nostri diritti non ci esasperi. Se ci fanno torto, questo non ci sembri così poco sopportabile da dover fare ricorso al mondo per vendicarci del nostro avversario. Ricordiamo questo precetto: «La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini»! Il fatto è che a volte dimentichiamo il mezzo per realizzarla; ma ecco: «Il Signore è vicino»! Come potrei insistere sui miei diritti quando aspetto la venuta prossima, immediata, del Signore? Posso lasciarli nelle mani degli uomini che me li tolgono; io preferisco aspettare, poiché sto per condividere la gloria celeste con Lui. Quale follia sarebbe il voler insistere sui miei diritti e farli riconoscere in un mondo che sto per lasciare! Il Signore rivendicherà più tardi i miei diritti nel suo regno terrestre come se fossero i suoi; ma nell'attesa io li lascio perdere. Il nemico non me li ha rubati per molto tempo.

L'apostolo Paolo aggiunge: «Non siate con ansietà solletici di cosa alcuna». È come se la frase «il Signore è vicino» unisse ciò che precede a ciò che segue. L'attesa del Signore che mi fa rinunciare ai miei diritti mi fa anche deporre in mano sua ogni mio bisogno e problema. Perché preoccuparmi dell'oggi, del domani, delle circostanze difficili, degli ostacoli posti da Satana, dello stato della Chiesa, della rovina della sua testimonianza? Lo Spirito risponde: «Non siate solleciti di cosa alcuna». Perché essere ansiosi? Il Signore viene per mettere fine a tutte queste difficoltà. Ma non bisogna che sia indifferenza; il credente non può essere indifferente al male. «Ma in ogni cosa siano le vostre richieste rese note a Dio in preghiera e supplicazione con azioni di grazie»! Le difficoltà, i problemi, le angosce, spingono l'anima alla dipendenza, alla preghiera, a confidare in Dio; essa rimette ogni cosa a Dio la cui pace guarda il nostro cuore.

Altri passi mostrano la consolazione che la venuta del Signore dà alle anime che sono nel dolore (1 Tess. 4:13-18), il coraggio di cui colma i cuori tormentati e timorosi (Giov. 14:1-3), la pazienza che comunica nelle difficoltà: «Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore». «Siate anche voi pazienti; rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Giacomo 5:7, Cool.
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