L’affrancamento o la liberazione in Cristo 1a parte
(Romani 6-7- John Nelson Darby
«Perché la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato [o affrancato] dalla legge del peccato e della morte». (Romani 8:2).
Che cos’è il vero affrancamento in Cristo e come vi possiamo giungere? Nessun cristiano dovrebbe affrontare queste domande leggermente, poiché il loro giusto significato è per lui della più grande importanza. La nostra giustificazione in Cristo assicura per sempre la nostra posizione nella presenza di Dio; il nostro affrancamento in Cristo ci fa camminare in questa presenza. La nostra sicurezza davanti a Dio si fonda sulla morte di Cristo sulla croce, e il nostro cammino davanti a Lui si fonda sulla vita di Cristo risuscitato, Cristo per noi e Cristo in noi.
Vi sono molti credenti che non sono realmente affrancati e ve ne sono molti che lo sono, senza conoscere il vero affrancamento. La realtà dell’affrancamento manca ai primi, e la conoscenza dell’affrancamento ai secondi. La differenza fra di loro è molto grande, benché i risultati e le esperienze siano sovente gli stessi. La verità indebolita e impura, che i primi leggono e ascoltano, li ritiene per anni ed anni nella schiavitù e nel timore; la stessa causa impedisce i secondi di camminare nella libertà. In tutti i casi, la potenza della verità e la sua efficacia benedetta sono perdute a loro riguardo. Il cuore è inquieto e aggravato, il camminare è fiacco e ostacolato, il nome di Dio non è glorificato; così le serie esortazioni della Parola a camminare in modo degno di Dio sono senza effetto e la testimonianza davanti al mondo è alterata e oscura.
Tutto questo sarà della più grande importanza per il credente, il cui cuore è semplice e diritto, ed egli non potrà tranquillizzarsi della triste scoperta che queste esperienze sono tanto comuni in mezzo ai cristiani d’oggigiorno. Egli teme ed ama il Signore e non desidera alcuna cosa più ardentemente della gloria del suo nome. Egli cerca, in verità, di essere un servitore sottomesso a Colui che l’ha riscattato col suo proprio sangue ed un figlio ubbidiente di Colui che l’ha fatto rinascere secondo la sua grande misericordia. Egli ama le tracce benedette del Signore, e considera come suo grande privilegio il seguirlo e il portare il suo vituperio. Ma per tutto il tempo in cui egli non è veramente affrancato, o in cui non conosce il vero affrancamento, incontra delle difficoltà insuperabili; la carne, ed il peccato che dimora in essa, fanno sorgere continuamente degli ostacoli sul suo cammino. Qual gioia sarà dunque per lui il conoscere veramente che Dio ha appianato perfettamente il cammino in Cristo, e ch’egli ne ha tolto ogni ostacolo!
Per ciò che riguarda la dottrina dell’affrancamento, come ogni altra verità divina, è molto importante riconoscere, che non la si può comprendere per mezzo dell’intelligenza naturale (1 Corinzi 2:14). Finché il cristiano confiderà nella sapienza umana e nell’intelligenza naturale per lo studio della parola di Dio, ne indebolirà la verità per se stesso e vi metterà confusione. Quando Dio ha parlato, noi non abbiamo più niente da dire, niente da aggiungere, né da considerare, ma semplicemente e solo da credere, credere fermamente e senza riserva. Se meditiamo la sua Parola, non dobbiamo avvicinarci ad essa con un’opinione preconcetta, né con ciò che sappiamo, od abbiamo sentito, o letto, se non è per provare, per mezzo della Parola, e le nostre opinioni e quelle degli altri, per vedere e giudicare se tutto questo è proprio secondo la verità. Questa precauzione, questa saggezza divina è necessaria specialmente ai giorni nostri, in cui un così gran numero di dottrine erronee sono in voga, in cui anche dei cristiani insegnano e scrivono, intorno alle cose di Dio, tanti principii più o meno mescolati coll’errore, perché molto spesso innalzano la loro conoscenza (che dovrebbe sempre essere sottomessa alla parola di Dio) al disopra di questa Parola. Oh! non si possono calcolare le tristi conseguenze di questo miscuglio di verità e d’errore per tante anime che, pur dichiarando che la parola di Dio è la sola regola della nostra vita e del nostro cammino, si lasciano però guidare dai discorsi e dai libri degli uomini, anziché dalla semplice verità delle Scritture, e che ancora sanno molto meglio e più facilmente parlare di quelli che di questa. Se il pensiero che Dio ci parla ci riempisse di venerazione, ogni qualvolta meditiamo la sua Parola, un santo timore ci impedirebbe sempre di mescolarvi le nostre proprie opinioni, e più ancora, di farle prevalere su di essa; poiché facendo così, non facciamo altro che indebolire la verità per noi stessi e sovente ancora renderla inefficace sui nostri cuori. La Parola di Dio sola è la sorgente donde possiamo trarre la pura verità, e l’unzione dello Spirito Santo guiderà certamente colui che è semplice e diritto e gliene aprirà la vera intelligenza per mezzo della fede. Esaminiamo dunque tutte le nostre opinioni, relativamente al soggetto che ci occupa, alla luce dello Spirito Santo e colla scorta della parola di Dio. Siamo pronti a rigettare risolutamente tutto ciò che non è d’accordo con questa santa Parola, per quanto antico e generalmente ammesso possa essere; e ricerchiamo, riceviamo e riteniamo fermamente l’insegnamento di Dio su questo soggetto, come pure sopra ogni altro, con un cuore semplice e riempito della certezza della fede.
Consideriamo dapprima il capitolo 7 dei Romani.
Succede sovente che dei veri cristiani ne applichino l’ultima parte a se stessi, a lor danno, unicamente perché lo leggono superficialmente e adottano troppo leggermente il commentario degli altri su quel punto. È abbastanza frequente sentirli dire che la loro stessa condizione è descritta in passi, come quelli dei versetti 14 e 19: «Io sono carnale, venduto schiavo al peccato. — il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio».
Essi ne fanno una tale applicazione perché credono che l’apostolo parli qui del suo proprio stato interno. Desisterebbe, certamente, ad ammettere questo pensiero, chi si desse la pena di confrontare con queste parole i numerosi passi che rendono testimonianza del cammino di Paolo. Leggiamo, per esempio, in 1 Tessalonicesi 2:10: «Voi siete testimoni, e Dio lo è pure, del modo santo, giusto e irreprensibile con cui ci siamo comportati verso di voi che credete». Egli poteva dire arditamente ai Corinzi (1 Corinzi 11:1): «Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo». Egli diceva ancora a Timoteo (2 Timoteo 3:10): « Tu invece hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei propositi, la mia fede, la mia pazienza, il mio amore, la mia costanza, le mie persecuzioni, le mie sofferenze... ».
Come conciliare tutti questi passi con le parole: « il bene che voglio, non lo faccio», ecc.? Io penso che nessuno avrà la temerità di sostenere che, nei passi testé citati, e in molti altri analoghi, l’apostolo parli solo della sua buona volontà e che, quanto alle azioni, egli facesse tutto il contrario. E quando esortava tanto spesso i cristiani a camminare in modo degno di Dio, o dell’evangelo di Cristo, non intendeva certamente di limitarsi a risvegliare in loro buone risoluzioni e il desiderio di camminare fedelmente. Come avrebbe potuto rivolgere tali esortazioni ad altri, se egli doveva riconoscere che, quanto a lui stesso non praticava il bene che voleva fare e faceva il male che non voleva: o, in altri termini, se fosse stato ancora egli stesso assoggettato alla legge del peccato senza poter compiere il bene?
Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama» (Giovanni 14:21). Non si tratta certamente qui di una buona disposizione ad osservare i suoi comandamenti, ma della loro vera osservanza. Altrove dice (Giovanni 15:14): «Voi siete miei amici, se fate — non se volete o desiderate fare — le cose che io vi comando». Ecco una testimonianza dell’apostolo Giovanni (1 Giovanni 2:3-5): «Da questo sappiamo che l’abbiamo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: Io l’ho conosciuto, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo». In un altro luogo (1 Govanni 5:3), lo stesso apostolo dice: «Questo è l’amore di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi». Queste serie parole ci mostrano molto chiaramente che si tratta di un reale adempimento dei suoi comandamenti, e della sua Parola, e non solo della volontà di adempierli.
Leggiamo ancora in Ebrei 9:14: «...Quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì sé stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!». E in Tito 2:14: «Il nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù ha dato sé stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone». Per quanto preziosi e benedetti possano essere tali passi delle Scritture, succede sovente che non vi si presti molta attenzione e che non li si apprezzi abbastanza. La vera e triste ragione di questo è che cerchiamo noi stessi, e non la gloria di Dio. Per molti cristiani, la certezza della salvezza è la prima e l’ultima, se non l’unica preoccupazione. Essi non hanno a cuore l’intenzione del Signore che è stata di acquistarsi un popolo santo per servirlo di libera volontà, ed ancora meno il compiacimento del Padre, di avere dei figli che l’onorino per mezzo di un’umile ubbidienza. I pensieri, che l’opera di Cristo inspira loro, non oltrepassano la propria redenzione. Ma le intenzioni di Dio e i pensieri di Dio vanno può lontano. Certamente, nella sua misericordia, Egli pensò prima di tutto alla nostra redenzione; Egli aveva in vista la nostra felicità, dando per noi il suo unico e diletto Figlio; ma la nostra felicità è legata alla sua felicità; il suo amore e la sua gioia trovano la loro soddisfazione nella nostra liberazione e accettazione.
Pietro rivolge le seguenti parole ai credenti (1 Pietro 2:9): «Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa». L’intenzione di Dio era di possedere un tal popolo. Ma egli non poteva trovarlo sulla terra, finché non l’avesse preparato Egli stesso in Gesù Cristo. Aveva, è vero, già prima scelto Israele come suo popolo, ma sotto la condizione che Gli obbedirebbe e che camminerebbe sulle sue vie. Israele promise di farlo, perché nel suo accecamento, non conosceva né la propria debolezza, né la santità di Dio; e la sua disubbidienza e la sua caduta non si manifestarono che troppo presto. Dio diede, senza dubbio, a questo popolo molte prove visibili del suo favore; lo condusse con pazienza e con amore nelle sue meravigliose vie; lo colmò di ogni sorta di benedizioni; ma, malgrado tutto, Israele si mostrò sempre un popolo di collo duro, incirconciso di cuore e di orecchio. Questo popolo non rispose dunque alle intenzioni di Dio, e non soddisfece il suo amore e la sua gioia, perché era un popolo che amava sempre la via dell’errore, che non ubbidiva alla voce del suo Dio, e non camminava nei suoi sentieri. Quindi l’Eterno fu costretto a dire: «Voi non siete mio popolo» (*).
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(*) È evidente che io non parlo qui degli uomini fedeli in Israele che aspettavano con fede il Messia promesso e la redenzione per mezzo di Lui, e che, così, erano come le primizie del vero popolo.
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Egli voleva avere un popolo santo, un popolo che lo servisse in verità e che fosse «zelante nelle opere buone»; ma Israele serviva il peccato, era zelante nelle cattive opere. Il suo intiero cammino sotto la legge non era che un frutto per la morte; «esso era carnale, venduto schiavo al peccato».
Ora Dio si è scelto un popolo, di cui l’accettazione e la sicurezza non sono fondate sulla sua obbedienza, ma unicamente sopra il sangue di Gesù. Dopo l’alleanza del Sinai, Israele divenne suo popolo, servitore; ma il popolo che Dio si è scelto ora, lo serve perché è suo popolo, «creato in Cristo Gesù per fare le opere buone». Ma se questo popolo dovesse ancora fare questa confessione: «Io sono carnale, venduto schiavo al peccato» oppure: «il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio», in che consisterebbe la differenza, per ciò che riguarda il cammino quaggiù, tra l’uno e l’altro popolo? (*).
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(*) Bisogna però notare qui che il popolo d’Israele non è rigettato se non per ciò che riguarda la sua posizione sotto la legge, sul fondamento della propria ubbidienza, e non come popolo di Dio sul fondamento delle promesse fatte ai padri, «perché i carismi [o i doni] e la vocazione di Dio sono irrevocabili». Egli lo riceverà di nuovo e benedirà sul fondamento del sangue di Gesù, il Mediatore della nuova alleanza, sul fondamento d’una grazia senza limiti, questo popolo, ch’Egli ha messo da parte per un tempo.
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Questa differenza sarebbe forse nel fatto che quello non sapeva che poteva servire Dio, e che questo invece lo sa? Sarebbe una ben meschina differenza! Quanto poco allora sarebbe raggiunto lo scopo di Dio, di avere un popolo che gli serva in verità e che sia zelante nelle buone opere! Il sangue di Gesù non avrebbe esso mancato al suo scopo a questo riguardo? Il suo potere e la sua efficacia non sarebbero forse messi in dubbio? Ed infine la testimonianza resa dallo Spirito Santo riguardo a questo sangue, che purifica le nostre coscienze dalle opere morte e che ci rende capaci di servire il Dio vivente, non sarebbe smentita?
Non lasciamoci dunque fermare dalle nostre proprie opinioni, e non mettiamo le nostre esperienze, né quelle degli altri cristiani, al posto della parola di Dio. Altrimenti, come abbiamo visto, renderemmo vana l’intenzione di Dio, indeboliremmo l’efficacia del sangue di Cristo, disonoreremmo la testimonianza dello Spirito Santo e ci spoglieremmo del privilegio benedetto di servire Dio e di glorificare il suo nome. Non dobbiamo pensare che questo servizio e questa fedeltà siano compiuti solo col desiderio di fare il bene. Non vi è niente di più contraddittorio che una tale affermazione, niente che disonori di più la parola di Dio e che ne distrugga tanto l’efficacia nel cuore dei credenti.
Se si esaminasse più da vicino questa massima diventata così comune: «Io vorrei, o amerei poter servire Dio», si troverebbe, ahimè! che per i più non è che una frase, per mezzo della quale cercano di tranquillizzare la loro coscienza e di eludere le esortazioni dello Spirito Santo. Si potrebbe appena credere che vi siano molti cristiani, i quali riguardano come una mancanza di esperienza e di conoscenza di se stessi, il parlare d’un cammino degno dell’Evangelo, d’un cuor diritto e sincero nell’osservanza dei comandamenti di Dio e di Cristo. Essi non vogliono che un ritorno alle opere della legge, una pretesa della carne di cui tanto sovente hanno provato l’incapacità Ma non riconoscono il carattere della vita, che ogni anima affrancata possiede in Cristo risuscitato: non comprendono la potenza dello Spirito che abita in loro. Così, fanno dell’apostolo Paolo un dottore della legge; tuttavia, vediamo con quale zelo quest’apostolo cerchi di convincere i credenti che sono completamente liberati dalla legge, benché rivolga loro delle esortazioni a camminare in modo degno della loro vocazione celeste.
Queste persone giudicano lo Spirito per mezzo della carne e lo contristano, mettono la parola di Dio sotto le loro esperienze e l’indeboliscono. Stimano troppo poco l’autorità di questa Parola, ed ecco perché la studiano superficialmente, perciò la conoscenza che ne hanno resta sempre molto imperfetta. Il gran soggetto delle loro conversazioni, della loro edificazione consiste nelle esperienze che fanno intorno alla corruzione e la totale debolezza della carne, e si servono sovente in modo ben triste della Parola di Dio per appoggiare le loro esperienze carnali su qualche passo mal compreso o isolato dal suo contesto.
Lo ripeto, lo scopo di Dio a nostro riguardo è di avere quaggiù un popolo che, purificato dalle opere morte per il sangue di Gesù Cristo, Gli serva di spontanea volontà; un popolo zelante nelle buone opere (*).
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(*) A questo proposito faccio osservare che si tratta qui solo della nostra posizione come popolo di Dio quaggiù, e non delle nostre relazioni col Padre, come figli, e meno ancora della nostra posizione speciale e celeste in Cristo, come sua assemblea, come suo corpo, sua pienezza, ecc.
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Oh! che questo privilegio benedetto di servire Dio e di essere zelanti nelle buone opere, possa essere degnamente apprezzato dalle anime nostre!
Vi sono ancora molti cristiani, che, in sincerità di cuore, dicono: «Io desidero in verità di camminare in modo da piacere a Dio; ma non posso farlo, amo il bene e desidero farlo, ma me ne manca la forza. Questo mi cagiona molta pena e angoscia, ma nessun cambiamento avviene. Prego il Signore di aiutarmi, e trovo sollievo e consolazione presso di Lui; ma questo non dura a lungo, io cado ben presto nello stesso stato, e mi ritrovo sempre senza forza». Un tal linguaggio è sincero, e vi sono delle promesse fatte al cuore diritto. Tali anime troveranno certamente che val la pena d’investigare la parola di Dio riguardo a questo soggetto così serio e così importante, e io spero che non leggeranno queste righe senza profitto.
Ritorniamo alla nostra meditazione del capitolo 7 dell’epistola ai Romani. Noto dapprima che vi troviamo sovente la piccola parola «legge», ma non sempre, come vedremo, riguardo ad una sola e medesima cosa. Se io sono sotto una legge, sono sotto un’autorità che m’impone degli obblighi, che mi detta delle esigenze. Che io adempia questi obblighi o no, che io possa adempierli e non lo possa, che io voglia o non voglia, che io lo faccia contro la mia volontà, o di buon animo — la legge esige, e non può essere soddisfatta che dal proprio perfetto adempimento. In questo capitolo, l’apostolo s’indirizza prima a quelli che conoscono il vero significato d’una legge: «Parlo a persone che hanno conoscenza della legge» (v. 1). Qui dunque la parola legge è affatto generale, «Ignorate forse, fratelli, che la legge ha potere sull’uomo per tutto il tempo ch’egli vive?». Per tutto il tempo che una legge sussiste, o che è in vigore, chi da essa dipende è soggetto alle sue esigenze; non c’è che la morte che lo possa liberare. È quanto l’apostolo ci fa vedere, nei versetti 2 e 3, per la legge del matrimonio. «Infatti la donna sposata è legata per legge al marito mentre egli vive; ma se il marito muore, è sciolta dalla legge che la lega al marito, ecc.». Ne troviamo l’applicazione ai credenti nel versetto 4. Ma notate ancora che la parola «legge» in questo passo, non si riferisce soltanto ai dieci comandamenti, ma a tutto ciò che Dio esigeva dal popolo d’Israele, a tutto ciò che era la condizione della sua relazione con Lui; sì, a tutto quello che la giustizia di Dio domanda ad ogni uomo, come tale. Sotto questa legge, l’uomo è inevitabilmente perduto. Quindi, per tutti v’è una questione delle più serie: «Come posso io essere affrancato dalla legge?». A questa domanda, la parola di Dio sola ci dà, in molti passi, una risposta che soddisfa pienamente. È vero che non possiamo sottrarci, in modo illegittimo al dominio della legge che Dio ha dato, poiché tutto ciò che essa esige dall’uomo è perfettamente giusto. Ma Dio ci ha preparato in Cristo una via legittima per arrivare al più completo affrancamento dalla legge, — una via, che ci libera completamente e per sempre.
E questa via è «la morte» (vers. 4). «Così, fratelli miei, anche voi siete stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo... ». Qui, come nella legge del matrimonio, la morte è il solo mezzo per giungere all’affrancamento, «la morte mediante il corpo di Cristo». Io riparlerò più tardi del carattere e della natura di questa morte; qui, non parlo che del fatto.
Così la morte ci rende liberi, perfettamente liberi riguardo alla legge ed alle sue giuste esigenze, poiché una legge non ha rapporto che colle persone viventi, e non coi morti. Ora il credente è morto alla legge per il corpo di Cristo, come vediamo chiaramente qui; come uomo naturale, soggetto alla legge, è intieramente messo da parte; è crocifisso con Cristo e non è più affatto sotto la dominazione della legge. Non parlo qui della verità benedetta che la legge ha trovato in Cristo la sua piena soddisfazione riguardo ai nostri peccati, ma io voglio dire che noi tutti che crediamo, non siamo più sotto la legge e che non abbiamo dunque, sotto alcun rapporto, da metterci sotto la legge, sia relativamente alle sue giuste esigenze, che ai suoi giusti giudizi. La legge, per così dire, non esiste più per noi, o piuttosto noi non esistiamo più per la legge, perché «noi siamo stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo».
Tale è la semplice dottrina della parola di Dio su questo soggetto, noi possediamo per la fede queste verità benedette e i nostri cuori riconoscenti si rallegrano del nostro perfetto affrancamento dalla legge. Quando si discute su questo punto, un pensiero sorge abitualmente, e cioè che la certezza di un sì perfetto affrancamento dalla legge debba generare indifferenza per ciò che riguarda la trasgressione di essa. Ma, se consideriamo la seconda parte di questo versetto, vediamo come un tal pensiero sia inesatto e mal fondato: «per appartenere a un altro, cioè a colui che è risuscitato dai morti, affinché portiamo frutto a Dio». È in rapporto con la legge che portiamo frutto alla morte (vers. 5); ma perfettamente affrancati dalla legge ed uniti con Cristo, vero uomo, portiamo del frutto a Dio. Per il credente è questo il risultato benedetto d’un vero affrancamento. Nel vers. 5 le parole «mentre eravamo nella carne» sono ancora degne di nota; così noi non «siamo» più, ma: noi «eravamo ». Leggiamo ancora al capitolo 8:9: «Voi però non siete nella carne ma nello Spirito». È chiaro che qui e in altri luoghi, la parola «carne» non significa la carne esteriore, visibile, o di corpo, ma la carne nel senso morale, l’essere naturale, lo stato o la posizione dell’uomo davanti a Dio e sotto la legge. L’uomo rinnovato in Cristo non è più in questa posizione davanti a Dio. Egli è completamente affrancato dalla legge, perché non è più nella carne e sotto la legge, ma è nello Spirito. Tuttavia la carne esiste ancora in lui, ma egli non è più sotto il suo dominio, e la carne non rappresenta più, come prima, la sua posizione davanti a Dio. Il nostro servizio davanti a Lui prende ancora un tutt’altro carattere, come leggiamo al vers. 6. Come morti alla legge, il nostro servizio non può essere né nella carne, né sotto la legge; la morte mediante il corpo di Cristo ha messo interamente da parte questa posizione e per sempre. Siamo rinnovati in Cristo, siamo nello Spirito. Ecco la verità relativamente a tutti coloro che sono in Cristo Gesù. Non si tratta qui della loro debolezza, o della loro forza, non si tratta del cammino di un cristiano, ma solamente della nuova posizione, alla quale tutti i credenti sono giunti, — non da loro stessi — in Cristo risuscitato, e che essi si sono appropriata per la fede. «Ma ora siamo stati sciolti dai legami della legge, essendo morti a quella che ci teneva soggetti, per servire nel nuovo regime dello Spirito e non in quello vecchio della lettera». (Romani 7:6).
Poiché, dunque, era impossibile servire Dio sotto la legge, e poiché bisogna esserne interamente liberi ed affrancati per servire Dio in Cristo e portare frutto a Lui, poteva facilmente sorgere il pensiero che la legge stessa fosse peccato e che avesse una cattiva influenza. L’apostolo risponde ad un tal pensiero nei versetti seguenti. Egli giustifica la legge da ogni accusa e ne stabilisce il vero carattere, appunto come mette in evidenza tutta l’odiosità del peccato. Farò prima di tutto osservare che Paolo si serve qui della parola «io» affin di rendere più semplice e più chiaro il suo insegnamento, su questo punto. È tuttavia questa piccola parola che ha fatto sbagliare la via a tante anime e le ha impedite di comprendere bene questo passo. Esse pensano, come abbiamo già detto, che l’apostolo parli qui di se stesso, del suo proprio stato morale. Hanno questa opinione, perché non leggono il passo citato che superficialmente, e raramente in connessione coi capitoli che precedono e che seguono; e molti si compiacciono di conservare questa opinione, perché vi trovano un motivo di tranquillizzarsi sul proprio stato. Ma i capitoli 6 e 7 sarebbero non soltanto in contraddizione con quest’interpretazione, ma neppure avrebbero senso, se l’apostolo parlasse di se stesso, del suo proprio stato davanti a Dio nell’ultima parte del capitolo 7.
È notevole che, in questa parte del capitolo, non è parlato né di Cristo, né dello Spirito Santo, ma solamente della legge, della potenza del peccato, dell’impotenza e della corruzione della carne e degli sforzi inutili dell’uomo messo in questa posizione. Gesù Cristo non è introdotto che al vers. 25, come il solo rifugio, il solo liberatore di colui che è schiavo sotto la legge del peccato e della morte, o come la sola risposta, che può soddisfare alla domanda: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» Proprio l’apostolo era ancora nel caso di fare questa domanda? Era egli ancora schiavo sotto la legge del peccato e, nel suo intiero cammino, non produceva egli che dei frutti per la morte? La sua redenzione e il suo affrancamento in Cristo erano forse ancora in dubbio, oppure non aveva egli né conoscenza, né coscienza? Lo Spirito Santo non aveva forse fatto la sua dimora nel suo cuore? Nessun cristiano certamente potrebbe esitare a rispondere a queste domande.
Considerando più da vicino questo passo, troveremo che non si tratta qui, né dello stato dell’apostolo, né di quello d’un cristiano affrancato, ma precisamente d’uno stato, che ne è del tutto l’opposto. L’apostolo, come abbiamo detto, dapprima giustifica la legge contro ogni accusa e mette in luce il vero carattere del peccato (vers. 7-13). Egli mostra, al versetto 7, che la legge produce la conoscenza del peccato: «Io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire». È dunque la legge sola, che manifesta e rivela la vera natura del peccato e della concupiscenza, ed è per essa che si conosce questa natura. Il peccato è il cattivo principio che dimora nella carne e vi opera; è un potere nemico che agisce contro la legge di Dio. Esso opera appunto ciò che la legge proibisce, e perché lo proibisce. La concupiscenza è il desiderio o l’inclinazione della carne. Quando la legge dice: «Non concupire» ci fa conoscere che tali inclinazioni e tali desideri della carne sono cattivi. Il peccato, allora, genera queste concupiscenze in me, e ciò precisamente perché la legge le proibisce. Questo manifesta il vero carattere del peccato, ciò che ha di odioso, e il suo antagonismo contro il bene: «Ma il peccato, còlta l’occasione, per mezzo del comandamento, produsse in me ogni concupiscenza» (vers.
. La legge e il comandamento sono, in fondo, una sola e medesima cosa, benché la prima indichi tutti i comandamenti nel loro insieme, e l’ultimo piuttosto un solo comandamento tratto dalla legge. Ora, si potrebbe domandare: Non è dunque per la legge stessa che il peccato è risvegliato, eccitato, provocato? Certamente no. Il peccato esisteva già prima che fosse data la legge: «Poiché, fino alla legge, il peccato era nel mondo» (cap. 5:13); ma «senza la legge il peccato è morto» (cap. 7:
. La legge non produce il peccato, ma ne svela il vero carattere. Esso è sempre lì; ma dove non vi è legge, la vera natura del peccato è nascosta. Ma, appena comparisce il comandamento, il peccato riprende vita e si mostra nel suo vero carattere d’inimicizia contro alla legge di Dio. «Un tempo io vivevo senza legge; ma, venuto il comandamento, il peccato prese vita» (versetto 9).
Quando l’apostolo è vissuto senza la legge? Non si tratta di questo qui. L’apostolo non parla né di se stesso, né di altra persona; adopera questo modo di dire per dimostrare che il peccato è messo in evidenza per mezzo del comandamento, il quale ne manifesta il vero carattere. Vediamo già in un fanciullo sorgere il desiderio disordinato di fare ciò che gli è proibito, benché non avesse gran voglia di farlo prima della proibizione. Per il comandamento prende vita, nel fanciullo, il peccato, che fin allora era sembrato morto riguardo a queste cose, ma che ora è eccitato ad agire contro il comandamento. Così pure succede negli uomini. L’apostolo ed ogni cristiano affrancato possono applicarsi l’espressione: «e io morii», ma qui non si tratta di questo: ancora una volta, l’apostolo non fa che mettere in evidenza la vera natura del peccato e i suoi tristi effetti. Se alcuno è senza legge, il peccato è là senza dubbio, ma è morto; appena il comandamento interviene, il peccato prende vita, e che cosa ne segue? Esso genera la morte: «E io morii; e il comandamento che avrebbe dovuto darmi vita, risultò che mi condannava a morte» (vers. 10). La legge dice: «Fa questo, e vivrai», ed è per la legge che il peccato mette su di me la sentenza di morte. La legge promette la vita a chiunque le è sottomesso, ma è obbligata a condannare l’uomo; e perché? Perché il peccato, che prende vita per il comandamento, l’ha sedotto; — il peccato ha operato in lui precisamente ciò che la legge proibisce ed ha fatto di lui un trasgressore, per conseguenza la legge, che è giusta e santa, non può che condannarlo. «Perché il peccato, còlta l’occasione per mezzo del comandamento, mi trasse in inganno e, per mezzo di esso, mi uccise» (vers. 11). Non è dunque il comandamento che ha prodotto questa morte, ma il peccato. È vero che la legge ha pronunziato questo giudizio di morte contro il peccato, ma essa non può fare altrimenti, perché «la legge è santa, e il comandamento è santo, giusto e buono. Ciò che è buono, diventò dunque per me morte? No di certo! È invece il peccato che mi è diventato morte, perché si rivelasse come peccato, causandomi la morte mediante ciò che è buono; affinché, per mezzo del comandamento, il peccato diventasse estremamente peccante» (vers. 12-13). Qual triste cosa è dunque il peccato! Come si mostra cattivo e corrotto! È appunto la legge santa che l’ha spinto a mettermi sotto il suo giusto giudizio; il peccato mi ha cagionato la morte per mezzo di ciò che è buono. Questo ne manifesta pienamente il vero carattere.
Si potrebbe ancora domandare: «Perché facciamo noi il male e non il bene»?
Al che una risposta chiarissima danno i versetti seguenti; già le parole del vers. 14: «io sono carnale, venduto schiavo al peccato» ci danno la chiave del triste stato d’un’anima, che fa le esperienze espresse nei versetti che seguono (15-24). Essa è obbligata a confessare: «Io sono carnale e la legge è spirituale. Io sono uno schiavo del peccato, e la legge domanda da me che io sia schiavo della giustizia». Quale opposizione! Se anche la coscienza rinnovata conosce il bene, e approva la legge, riconoscendo ch’essa è buona (vers. 16), a che mi serve quest’apprezzamento del bene, se io faccio il contrario? Se anche la volontà rinnovata è totalmente disposta a fare il bene, — a che serve se «in me non si trova il modo di compierlo?» (vers. 18). Io so che la legge non esige se non ciò che è giusto e buono, so pure che essa ha il diritto di esigerlo da me: non desidero di diminuire, né di restringere queste esigenze; ma non ho alcuna forza per rispondervi. È vero che quando riconosco il bene e sono pronto a farlo, «non sono più io che faccio il male, ma è il peccato che abita in me» (vers. 17). Ma qual consolazione vi è qui per me? Io riconosco la bruttezza del peccato, eppure sono suo schiavo: riconosco il bene, eppure non lo pratico; odio il male eppure lo faccio. Sono sotto il dominio e la potenza del peccato con una coscienza ed una volontà rinnovate; sono più disgraziato che mai. Gli sforzi più ardenti sono vani e non fanno che aggravare il mio stato disperato; non fanno che mettere ognor più in evidenza come sia odioso il peccato al quale sono intieramente venduto, e mi convincono ognor più «che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene» (vers. 18) ed ecco tutto. Debbo sempre fare questa confessione: «Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio» (vers. 19); non vi è alcuna forza, né alcun adempimento di bene, e per conseguenza, alcuna vera pace nel cuore.
I versetti 21-23 hanno ancora diversi rapporti con la legge, e servono a svelare sempre più chiaramente lo stato d’un’anima non affrancata. Al versetto 22 si tratta della legge di Dio; «l’uomo interiore», cioè la coscienza e la volontà rinnovate, si diletta in questa legge, e al vers. 23 quest’affezione è chiamata «la legge della mia mente». È ancora detto in questo versetto: «vedo un’altra legge nelle mie membra», legge che ha già menzionata al vers. 21: «Mi trovo dunque sotto questa legge:... il male si trova in me». Questa «legge nelle mie membra» è opposta alla «legge della mia mente» e le fa la guerra; il male che abita in me, è in assoluta opposizione colle affezioni dell’uomo interiore. Ma vi è ancora, come si vede al vers. 23, «un’altra legge nelle mie membra», cioè «la legge del peccato» — il principio nemico che agisce nella mia carne — e sotto il cui dominio mi mette il male che abita in me, male che «combatte contro la legge della mia mente». In questo stato, io sono dunque intieramente schiavo del peccato. Anche riconoscendo il bene, io non posso praticarlo; anche odiando il male, io devo pur farlo. Sono completamente soggetto al peccato; sono suo schiavo, gli sono venduto, pertanto esso può fare di me ciò che vuole; non vedo una via di scampo per uscire di lì. Qual triste stato! Certamente la domanda che leggiamo al vers. 24 è la sola che possa sorgere da un tal cuore: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?».
Ma, domando ancora una volta: Era questo lo stato di Paolo, e potrebbe essere questo lo stato di un cristiano affrancato?
È questo il risultato benedetto dell’opera di Cristo? Siamo noi ancora, malgrado quest’opera, dei prigionieri e degli schiavi del peccato, per produrre dei frutti per la morte? Lo Spirito Santo, che dimora in noi, non ha esso altra azione sul nostro cammino che questa triste esperienza della corruzione e della debolezza della carne? Come sarebbe deplorevole, se così fosse! E tuttavia non troviamo, nell’ultima parte di questo capitolo che schiavitù, debolezza assoluta e frutto di morte. Ci si vede pure l’uomo rinnovato nella sua coscienza e nella sua volontà — chiamato l’uomo interiore — ma non c’è affrancamento, né forza, né alcun frutto accettevole a Dio.
Tuttavia è da notarsi anzitutto, come si è già detto, che in questa parte del capitolo non è parlato di Cristo, il fondamento del nostro vero affrancamento; né dello Spirito Santo, sorgente della nostra forza; è pure impossibile che vi si tratti di un’anima nella quale lo Spirito Santo abita e che conosce il vero affrancamento per l’opera di Cristo.
Abbiamo dunque trovato, nell’insegnamento di questo capitolo, tre punti diversi:
1° L’affrancamento dalla legge per la morte (vers. 1-6);
2° La conoscenza del peccato per la legge (vers. 7-13);
3° Il rinnovamento della coscienza e della volontà, ma ancora nella carne e sotto il potere del peccato (vers. 13-23).
Ora, io spero che ogni credente, che avrà seguito questa meditazione senza preconcetti, avrà pure la convinzione che, usando la parola «io» l’apostolo non voleva dipingere il suo proprio stato attuale, ma si è servito di questo modo di dire, o, se si vuole, si è messo in questa posizione, per ipotesi, e unicamente per rendere il suo insegnamento più chiaro e più espressivo.
L’abbiamo già detto, molte anime si trovano più o meno in questo stato — perché non conoscono ancora ciò che sia il vero affrancamento, o perché non l’hanno ancora ricevuto. Se non sono sotto la legge nel senso letterale (poiché è ad Israele solo che la legge fa data), vi sono nel senso morale e il risultato è identico. Scoprono sempre più o meno in se stesse i risultati e le esperienze, di cui è fatta parola in questo capitolo, e per conseguenza saranno tanto più indotte a credere che l’apostolo vi parli di se stesso, perché trovano, in questo pensiero, un mezzo per tranquillizzarsi sulla loro propria condizione, come abbiamo già fatto osservare. Ma Dio nella sua ricca grazia e nel suo amore infinito, ci ha preparato in Cristo Gesù qualche cosa di migliore che una vita di schiavitù, che le esperienze della nostra completa incapacità, e un cammino nelle opere malvagie, sia pur questo involontario. Egli ci ha dato in Gesù Cristo l’affrancamento e la forza, ci ha resi «completi e ben preparati per ogni opera buona».
Si potrebbe domandare: A che possono dunque servire le esperienze scritte in questo capitolo?
Rispondo: Esse sono non solamente utili, ma necessarie, al fine di insegnarci a rinunziare intieramente, ed una volta per sempre, ad una pretesa giustizia per mezzo delle opere, e ad una cosiddetta santità nella carne, al fine di farci conoscere la vera natura del peccato, la corruzione e l’impotenza della carne, di modo che mettiamo tutta la nostra confidenza in Cristo Gesù e nella sua opera espiatoria.
È molto più difficile essere pienamente convinto che si è assolutamente incapace di fare il bene, che riconoscere che si ha peccato. Le esperienze sotto la legge sono il mezzo di convincere un’anima della sua completa incapacità; ma non è secondo il beneplacito di Dio il lasciarla in questo triste stato. Appena essa lo riconosce, appena si vede senza risorse in se stessa — subito depone i cenci della sua propria giustizia, nella convinzione che non potrà mai raggiungere la giustizia di Dio, e per conseguenza non ha più che da esclamare: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (vers. 24) — e inoltre Dio le rivela subito il perfetto affrancamento in Gesù Cristo. Allora essa conosce e comprende la sua posizione nel Cristo risuscitato, cosa questa che la rende capace di produrre dei frutti per Dio, e il suo cuore è riempito di lodi e di ringraziamenti. Essa esclamerà con verità; «Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (vers. 25). In Cristo essa trova non solamente la sua posizione, ma ancora la sua libertà e la sua forza. Si potrebbe credere però che la carne non esista più o che la sua natura sia cambiata; è per questo che lo Spirito Santo aggiunge come conclusione del vers. 25: «Così dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato». La carne è sempre là, sempre la stessa di prima, ma la nostra posizione davanti a Dio non è più nella carne, e così non è più sotto la dominazione del peccato e sotto la condanna della legge; la nostra posizione è nel Cristo risuscitato, la nostra posizione è nello Spirito.
Prima di venire a trattare questa parte della nostra meditazione, intorno alla quale noi troviamo così preziose istruzioni nei capitoli 6 e 8 dell’epistola ai Romani, vogliamo fermarci ancora un momento su alcune esperienze, delle quali molti credenti amano occuparsi, intralciando in tal modo da se stessi un cammino di benedizione. Se le esperienze sono secondo lo Spirito, sono preziose e benedette; ma se sono secondo la carne, non abbiamo ragione di rallegrarcene. È raro che uno sappia bene distinguere questi due generi di esperienze, ciò che è pure così importante, e molti credenti si gloriano e si rallegrano di esperienze che dovrebbero rattristarli ed umiliarli profondamente. Molti parlano di più e con maggior piacere delle loro esperienze, che della Parola di Dio, e conoscono molto meglio quelle che questa. Sovente giudicano la Parola di Dio colla scorta delle loro esperienze, invece di giudicare le loro esperienze con la scorta della Parola di Dio. In questo modo non solo mettono le loro esperienze al livello delle Scritture — ciò che sarebbe già molto deplorevole — ma le mettono anche al disopra. Essi dicono molto più sovente; «Io ho fatto tale e tal’altra esperienza», piuttosto che: «Sta scritto». Ne risulta la triste conseguenza che essi mettono la loro fiducia in ciò che vedono e sentono, invece di porla in ciò che si può conoscere ed afferrare per la fede; poiché le esperienze hanno rapporto col sentimento e colle cose visibili, la Parola di Dio colla fede. Ne segue ancora che la pace con Dio, la sicurezza della nostra posizione nella sua presenza e la certezza della nostra adozione sono molto deboli, alterate e scadenti in molte anime. I sentimenti e le esperienze sono soggetti a variazioni, così, tutto ciò che vi si fonda sopra è instabile e vacillante; ma la Parola di Dio è ferma e stabile, e noi siamo sempre in sicurtà e in certezza quando su di essa riposiamo con fede.
L’incertezza e l’abbattimento, l’aridità e la languidezza di tante anime, la mancanza di pace e di gioia, di lodi e di ringraziamenti, il cammino mondano e carnale — tutto questo proviene soprattutto da ciò che si dà troppo valore alle esperienze cosiddette cristiane e si apprezza e si conosce poco la Sacra Scrittura. Oh! noi siamo ben lungi dall’immaginare quanto grande sia il male che deriva da questa sorgente. Succede sovente che si considerano certe esperienze come un criterio del vero stato d’un cristiano, perché ci sono dei veri credenti che ne fanno delle somiglianti. Ma quanto è mai assurdo questo pensiero! Può essere che un uomo ammalato si lasci persuadere che è forte e in buona salute, perché molti dei suoi vicini sono nello stesso suo stato? Com’è che molti cristiani si regolano sul cammino altrui e si tranquillizzano per questo? Gli è che, come abbiamo detto, stimano troppo, forse in buona fede, le esperienze dette cristiane, e stimano troppo poco — forse a loro insaputa — l’autorità della Parola di Dio. La sua Parola sola è «vivente ed efficace», «i suoi statuti sono perfettamente stabili», mentre le esperienze dei cristiani sono varie come le loro disposizioni.
Se paragoniamo per esempio, le esperienze di Abramo con quelle di Giacobbe, vediamo subito una gran differenza fra di loro. Erano ambedue credenti, ambedue avevano la stessa promessa; ma Abramo si confidava in Dio e camminava con Lui, mentre Giacobbe si confidava nelle circostanze, in ciò che era visibile, e camminò molti anni nel mondo, nel quale non aveva altare. Non è se non dopo una lunga sequela di tristi esperienze ch’egli riconobbe quanto Abramo aveva già riconosciuto da principio: che Dio è il Fedele e il Verace. Come sono semplici e benedette le esperienze di Abramo, e come sono varie e tristi quelle di Giacobbe! Similmente, scorgiamo grandi differenze fra i credenti d’oggi; ma sono pochissimi quelli che camminano sulle orme di Abramo e sono molto numerosi quelli che camminano su quelle di Giacobbe. Ve ne sono ancora che si gloriano delle esperienze di Giacobbe e che le considerano come utili e necessarie ad ogni cristiano. Esse sono, senza dubbio, utili e necessarie, ma solamente per un cuore carnale e mondano, per un cuore che si attacca alle circostanze e si fonda nelle cose visibili, come Giacobbe; ma esse non sono necessarie per un cuore semplice e moderato, che cammina con Dio nella fede, come Abramo. Io farò sempre delle esperienze: o nella mia infedeltà, esperienze della corruzione e della completa debolezza della mia carne, dell’instabilità di tutto ciò che è visibile e dei giudizi di Dio, oppure esperienze della fedeltà invariabile, dell’amore e della potenza di Dio. Ma quale differenza!
Molti cristiani si riferiscono ancora alle dolorose esperienze dei figli d’Israele nel deserto e misurano le loro secondo quelle. Ma c’è forse per noi un soggetto di consolazione e di pace nel rassomigliar loro? Desideriamo noi mietere, come loro, i tristi frutti dell’infedeltà? Se abbiamo compreso il giudizio che Dio ha formulato sull’errare di questo popolo nel deserto, oppure se abbiamo letto con qualche attenzione le serie parole dell’apostolo, in 1 Corinzi 10, le esperienze di questo popolo non ci tranquillizzeranno certamente. Molte anime, che si applicano così leggermente le parole seguenti, che Dio indirizza a questo popolo: «Sono sempre traviati di cuore» (Ebrei 3:10), sarebbero certamente atterrite, se prendessero veramente a cuore la frase che segue: «Così giurai nella mia ira: Non entreranno nel mio riposo!» (Salmo 95). L’apostolo non dimenticava queste parole, quando avvertiva gli Ebrei credenti del pericolo che sovrastava loro camminando sulle orme di questo popolo, il cui cuore tendeva sempre a sviarsi.
Ho già fatto notare che le esperienze, di cui è fatta parola nel capitolo 7 dei Romani, sono utili e necessarie, e che devono precedere un vero affrancamento; ma io sono ben lungi dall’affermare che queste esperienze della corruzione e dell’impotenza morale della carne si facciano, o si debbano fare da ciascuno, al principio della propria conversione. Credo invece che noi abbiamo tutti, più o meno, molto da imparare a questo riguardo, per ciò che si riferisce alla pratica, durante il nostro pellegrinaggio in questo deserto. Ma molti credenti si attengono quasi esclusivamente a queste esperienze della corruzione e dell’incapacità della carne, cosa certo molto deplorevole. Tuttavia essi, sovente, hanno fatto l’esperienza che la carne è corrotta e senza forza per il bene: ne parlano anche con la più profonda convinzione, eppure fanno sempre dei nuovi sforzi per compiere, in questo modo, ciò che riconoscono essere buono ed accettevole a Dio; ma non fanno niente altro che provare, sempre di nuovo, che tutti i loro sforzi sono inutili e vani. Molti credenti passano la loro vita così. Il loro cuore è molto spesso aggravato e abbattuto, pieno di affanni e d’inquietudine, di scoraggiamento e di timore. Annunziano bensì al mondo una gioia e una felicità in Gesù Cristo, ma succede sovente che se ne rallegrino pochissimo essi stessi. Se noi fossimo presenti alle loro preghiere alla fine della maggior parte delle loro giornate, noi sentiremmo molti lamenti e molte accuse contro se stessi, ma raramente liete lodi e ringraziamenti. Sovente sono costretti a sospirare dicendo: «Ecco un’altra giornata perduta, poiché ho vissuto per me e non per il Signore». E quante volte i lamenti dei cristiani sul loro proprio conto attestano il loro triste stato morale!
È una grazia preziosa ed inestimabile che la nostra adozione e la certezza della nostra salute non dipendano dal nostro cammino, ma solamente dall’opera di Cristo. Tuttavia, perdiamo molto se non siamo affrancati, o se non conosciamo l’affrancamento in Gesù Cristo. Perdiamo più o meno il privilegio benedetto di camminare in comunione con Lui, di glorificare il suo Nome con un servizio che gli è accettevale e di offrirgli con lieto animo le nostre adorazioni e i nostri rendimenti di grazie. Più d’un’anima seria deplorerà senza dubbio questa perdita, ha forse per molto tempo aspettato un miglioramento del suo stato, ma non ne ha mai trovato, e, in tali casi, si sente sovente la seguente confessione: «Io non ho una vera serietà e un vero zelo per il Signore: il mio amore e la mia devozione per Lui sono molto deboli, ed io non provo un profondo dolore, né una grande inquietudine a questo riguardo». Si sentono spesso, ai nostri giorni, simili lamenti in mezzo ai credenti, e si nota bentosto che manca realmente il vero affrancamento, o che non è compreso. Si manifestano in loro, sotto altre forme forse, gli stessi principii che troviamo nell’ultima parte di Romani 7: si riconosce il bene, si ha la volontà di farlo, ma non si ha la forza per compierlo. — È una lotta nella carne con la carne stessa, una guerra contro il peccato, senza conoscere la forza della vita in Cristo, e quindi tutti gli sforzi sono inutili e non fanno che manifestare l’infermità della carne e la forza del peccato. E a che gioverebbe il mostrare, in questa guerra, la serietà più decisa, lo zelo più ardente? A che mi gioverebbe il sentire in me un amore così ardente, da poter esclamare con Pietro: «Signore, sono pronto ad andare con te in prigione e alla morte»? Non lo rinnegherei io ben presto in modo deplorevole come l’apostolo, se entrassi nella stessa tentazione? Tutti i miei sospiri, tutti i miei pianti riguardo al mio stato disperato e alla mia mancanza di forza, sono parimenti infruttuosi. Sì, tutto è vano, finché io abbia compreso che vi è all’infuori di me, nel Cristo risuscitato, una pienezza che possiedo per la fede in Lui. Alcuno potrebbe dire: «Io so che vi è forza sufficiente in Cristo, ma ho bisogno della fede per poterne fare uso, ed io non trovo la fede in me». Rispondo: «Chi parla così non sa che cosa sia la fede, perché la convinzione che vi è in Cristo forza sufficiente per me, è precisamente la fede e niente altro, e appena io agisco conformandomi a questa convinzione, trionfo di tutto, sono più che vincitore in ogni caso».
Per molti credenti, che si lamentano della loro mancanza d’amore, quest’amore è più o meno una legge. Riconoscono l’amor perfetto di Gesù Cristo, che ha lasciato la sua vita per noi, e il pensiero di quest’amore li spinge ad amarlo ardentemente in contraccambio, ma non tardano ad accorgersi che non vi è in loro che pochissimo amore. Essi debbono amare Gesù Cristo con tutto il loro cuore, ecco un obbligo che è perfettamente giusto, ma non l’amano così, il peccato ne li impedisce. Eccoli dunque, benché sotto una forma rivestita del nome di Cristo, sotto la stessa legge che dice: «Tu amerai dunque l’Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore». Tali credenti pensano ancora molto più al loro imperfetto amore per Cristo, che al suo perfetto amore per noi; sono talmente preoccupati della loro mancanza d’amore, che non veggono quasi più la pienezza del suo amore, anche quando ne parlano molto. Qual gioia riempirebbe ed animerebbe i loro cuori, se potessero, una buona volta, lasciare interamente da parte se stessi e le loro imperfezioni, per contemplare unicamente e imparare a conoscere le ricchezze dell’amore del Signore; poiché la conoscenza del suo amore rende vivente ed efficace l’amore, che è sparso nei cuori nostri per lo Spirito Santo. Ma tutti gli sforzi per amarlo sono intieramente vani, non fanno che scoraggiare e travagliare l’anima. E quando sono arrivati a questo punto, molti credenti cercano un rifugio nelle esperienze d’altri cristiani, per le quali pensano di tranquillizzarsi. Vedono che molti, i quali hanno reputazione di essere veri cristiani e che sovente hanno già vissuto molti anni in questo modo, si trovano nella medesima loro condizione. Traggono ancora, come si è detto, qualche consolazione dalle esperienze di alcuni fedeli dell’Antico Testamento, senza pur considerare che i loro privilegi sono più grandi di quelli di quei santi, dacché l’opera di Cristo è compiuta e che lo Spirito Santo è disceso. Si gloriano ora delle esperienze stesse, che condannavano poco prima davanti a Dio; credono che i loro pianti sui loro numerosi falli siano una prova di buona condizione per un cristiano, e chiamano Spirito ciò che avrebbero chiamato una volta un triste effetto della carne; in questo modo, fanno tacere la loro coscienza accusatrice, diventano indifferenti riguardo al peccato e contristano lo Spirito di Dio.
Vi è un’altra specie di cristiani, che non potrebbero tranquillizzarsi così; questi fanno del cammino fedele e benedetto del credente un dovere difficile, un peso insopportabile, sotto il quale si trascinano gemendo. Non comprendono che questo cammino è il privilegio benedetto e prezioso d’un credente, e che le esortazioni speciali, che l’apostolo rivolge ai cristiani, ricordano ed esprimono sempre la loro posizione benedetta, relativamente a Dio Padre ed a Gesù Cristo. Ah! qual danno e quali perdite deve subire quaggiù l’anima che non conosce il vero affrancamento in Cristo!
Non mancano però, in mezzo ai cristiani, delle persone che si consolano dei loro sforzi infruttuosi, pensando che il cammino secondo Dio è compiuto in modo invisibile dall’uomo interiore, per la nuova vita. Questo bisogna ammetterlo, rappresenta strettamente il cammino d’un cristiano. Ma a che non si ricorrerebbe, quando il cuore è conturbato ed inquieto? Se qualcuno vede la minima apparenza di consolazione in qualche cosa, se ne impadronisce subito. Ma, domando semplicemente: Il cammino del Signore Gesù era invisibile? Sarebbe egli stato odiato dai peccatori, a cagione della sua giustizia, se la sua vita e il suo cammino fossero restati invisibili? Il cammino dell’apostolo Paolo era forse invisibile? Il suo cammino spirituale era forse meno visibile che non lo fosse stato il suo cammino carnale nel giudaesimo e sotto la legge? Il Signore vuol parlare d’un cammino invisibile in quest’esortazione: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli»? (Matteo 5:16). E chi oserebbe sostenere che si tratta di un cammino invisibile nelle molte esortazioni di questo genere?
Altri ancora si tranquillizzano, pensando che il Signor Gesù che ha tutto compiuto per noi, abbia ancora compiuto al nostro posto queste esortazioni di camminare santamente. Non ricorriamo a tali idee insensate, cari fratelli, poiché, facendo questo, inganneremmo noi stessi a nostro proprio danno e diminuiremmo la estensione dell’opera di Cristo che ha reso noi, completamente incapaci per natura, compiuti per ogni buona opera. Come sarebbe stato assurdo per l’apostolo il darsi tanta pena per incitare i cristiani ad una vita santa! Come mai potremmo e dovremmo comprendere quest’esortazione del Signore Gesù stesso: «Seguimi»? o quella dell’apostolo, quando in Filippesi 2, e in molti altri luoghi, ci dipinge il cammino perfetto del Signore Gesù, e ci dice: «Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù», e altrove: «Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati»? o ciò che è detto in 1 Giovanni 2:6: «Chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò»?
Molti pensano ancora che la volontà di Dio sia ch’essi si trovino in questo stato desolante, affinché non si inorgogliscano. Si può dunque dire che la fedeltà renda il servitore orgoglioso, o che l’obbedienza innalzi il fanciullo ai suoi proprii occhi? La confidanza nelle proprie forze e nei proprii sforzi è sempre legata all’orgoglio; ma non la confidanza nella grazia di Dio e nella potenza di Gesù Cristo.
Altri, simili a questi ultimi, cercano precisamente di mostrare il loro abbassamento, gloriandosi di essere poveri peccatori. Ma, chi si è abbassato di più: il povero peccatore, o Gesù il Figlio di Dio? Egli annichilò se stesso, pur essendo in forma di Dio (Filippesi 2:6-7). Tuttavia lo si accusò di orgoglio, perché chiamò Dio suo Padre. — Quando siamo noi veramente umili ed abbassati? È forse quando non vogliamo essere che «poveri peccatori» oppure quando, con un cuore umile e riconoscente stiamo e camminiamo nella posizione, in cui Dio ci ha posti, nella sua grazia, per Cristo? Fra tutti i nomi benedetti, che lo Spirito Santo attribuisce ai credenti, non troviamo mai quello di «poveri peccatori». Se egli fa menzione di questa posizione davanti a Dio, se adopera quest’espressione parlando dei cristiani, lo fa sempre in rapporto col passato. Non cerchiamo dunque la nostra umiliazione in una maniera così poco conforme alla verità. Consideriamo, inoltre, quante anime sono ritenute schiave sotto il peccato per tali false idee sul vero e buono stato d’un cristiano e come la benedizione e la potenza della Parola siano indebolite in coloro che sono pure stati riscattati a sì gran prezzo.
Oh! come sarebbe prezioso per i credenti, il mettere una buona volta interamente da parte tutte le loro proprie esperienze, così pure quelle di altri cristiani, e ricorrere unicamente alla parola di Dio! Certamente, se essi la studiassero e investigassero, sotto la direzione dello Spirito Santo e con preghiera, vedrebbero ben presto che molti passi, nei quali dei cristiani non affrancati credono di trovare consolazione, in realtà non ne contengono punto — ma sovente piuttosto il contrario — e si convincerebbero che si dà generalmente una falsa interpretazione a molte dichiarazioni delle Sacre Scritture. Ed allora comprenderebbero ben presto in che consista la vera libertà dei figli di Dio, e sarebbero veramente tranquillizzati. Quando il cristiano semplice, condotto dallo Spirito Santo nell’intelligenza della Parola, riconosce i privilegi e le benedizioni molteplici, che sono per lui in Cristo e nella Sua opera, allora ha trovato la soluzione, pienamente soddisfacente, d’una quantità di questioni, che l’avevano sovente conturbato fino a quel tempo; vede sparire interamente molti ostacoli ad un cammino degno del Vangelo; allora il suo cuore, libero e felice, è riempito di lodi, di ringraziamenti e di adorazione.
Abbiamo veduto in quale triste stato possono trovarsi molti cristiani, per mancanza di vero affrancamento, o per grossolana ignoranza della Scrittura e dell’opera di Cristo, oppure, ahimè! sovente ancora per mancanza di vera serietà e fedeltà davanti a Dio.
Proseguiamo dunque il nostro studio su questo importante soggetto con la scorta della Parola di Dio, affinché impariamo a ben comprendere in che consiste propriamente il vero affrancamento del cristiano.
Ritorniamo adesso al capitolo 6 dell’epistola ai Romani.
continua...