La risurrezione: caposaldo della fede e principio di vita
John Gifford Bellett
La risurrezione, chiamata dal Signore «la potenza di Dio», o almeno, una delle manifestazioni di questa potenza (Matteo 22:29), è stata rivelata sin dal principio da vari testimoni e in diversi modi. E poiché essa si collega con la redenzione, grande principio delle vie di Dio e segreto dei suoi disegni, bisognava che fosse così. Ne troviamo i primi indizi nel creato, nella scena imponente che ci circonda, poiché il mondo stesso fu chiamato all’esistenza dal sepolcro dell’abisso. La materia «informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso...» (Genesi 1:2); ma fu ordinato alla luce di risplendere dal seno delle tenebre, e la bellezza e l’ordine apparvero (Ebrei 11:3).
La risurrezione si preannunciò nella creazione di Eva, poi ancora nella prima promessa riguardo alla progenie della donna che doveva avere il calcagno ferito; essa è ricordata in Seth, dato al posto di Abele ucciso da Caino. Il ricordo della risurrezione fu perpetuato anche nella genealogia dei padri che vissero prima del diluvio, ma essa fu pubblicata in Noè in un modo ancora più solenne: «Sterminerò di sulla faccia della terra tutti gli esseri viventi che ho fatto», gli dice l’Eterno (Genesi 7:4); «tutto ciò che è sulla terra morrà. Ma io stabilirò il mio patto con te» (Genesi 6:17-18). Veniva così dimostrato che la terra doveva essere stabilita secondo i disegni di Dio, come la stabilità e la bellezza lo sono per mezzo della risurrezione.
È sullo stesso principio che, più tardi, Abrahamo doveva avere una famiglia e un’eredità. Egli è istruito sulla risurrezione, come pure le generazioni che gli succedono, dal mistero della donna sterile che divenne madre di nazioni. La benedizione garantita dal patto si riallacciava alla famiglia risuscitata (*). Ismaele può avere delle possessioni ed anche delle promesse, ma il patto è con Isacco.
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(*) Isacco, nato da Sara sterile e vecchia, è infatti un simbolo della vita che solo la potenza di Dio può far scaturire dalla morte. Egli stesso, poi, è un uomo «risuscitato» quando l’Eterno, che aveva chiesto che gli fosse sacrificato, lo risparmiò, facendo trovare ad Abrahamo qual capro impigliato per le corna in un cespuglio ch’egli offrì «invece del suo figlio» (Genesi 22:1-13, Ebrei 11:17-19) (n.d.t.).
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Tralasciando di passare in rassegna tutti coloro che sono serviti da testimoni della risurrezione, veniamo alla storia benedetta della «Parola fatta carne»; perché in Gesù essa è sancita in modo ancora più meraviglioso. Avremmo potuto pensare che non sarebbe stato così, dato che la carne in Cristo era senza macchia; Egli era una «santa cosa»; tuttavia, possiamo ora dire di Lui: «Se anche abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così» (2 Corinzi 5:16). È il Cristo della risurrezione che ora conosciamo. E questo è sufficiente a farci comprendere che la risurrezione è il principio di tutta l’azione divina e il segreto del patto. Le sue creature di ogni ordine ed in tutti i luoghi del suo dominio gli rendono testimonianza come al Dio vivente; ma nella storia dei peccatori riscattati Egli è conosciuto come il Dio vivente «in vittoria». Ne risulta che la risurrezione dovrebbe essere tanto più apprezzata da noi in quanto è lo spiegamento della sua gloria. Il sepolcro, coi pannilini e il sudario che era stato sul capo di Gesù, il tutto riunito con ordine, sono i trofei di una tale vittoria (Giovanni 20:6). Dubitare sul soggetto della risurrezione significa mettere in evidenza l’ignoranza che si ha di Dio e della sua potenza (ved. Matteo 22:29; 1 Corinzi 15:34).
Ma la risurrezione è stata pure, fin dall’inizio, un articolo di fede per il popolo di Dio; e, come tale, era la lezione che bisognava imparare e praticare come principio di vita, perché il principio di una dispensazione divina è sempre la regola ed il carattere della condotta dei santi. L’acquisto e l’uso che venne fatto del campo di Macpela mostrano che i patriarchi, nella Genesi, avevano imparato questa lezione (*).
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(*) Abrahamo non doveva possedere niente in Canaan; egli attraversava quel paese da forestiero e pellegrino. Però, Canaan era sua! Dio gli aveva promesso che, un giorno, lui e la sua discendenza avrebbero posseduto il Paese. Egli sapeva che la promessa di Dio si sarebbe adempiuta nei secoli a venire; per questo, nella speranza certa di una gloriosa risurrezione, depone il corpo di Sara in un sepolcro che è già di sua proprietà. «In fede morirono tutti costoro senza aver ricevuto le cose promesse, ma avendole vedute e salutate da lontano e avendo confessato che erano forestieri e pellegrini sulla terra» (Ebrei 11:13) (n.d.t.).
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Mosè l’aveva imparata e praticata, quando scelse di essere nell’afflizione col popolo di Dio, guardando alla rimunerazione. Davide ne realizzava la potenza, quando fece del patto, o della promessa della risurrezione, la sua salvezza e il suo piacere (*).
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(*) In 2 Samuele 23:1-7, Davide esprime la speranza che ha nel «mattino senza nuvole». Egli anticipa il trionfo di quel giorno, e vede per fede la luce del sole che si leva dopo la notte, l’erbetta che cresce dalla terra dopo la pioggia. Tutto ciò ch’egli dice, in queste ultime parole, è riferito ovviamente a Cristo, vero Figlio di Davide, Colui che regnerà «con giustizia e con timor di Dio» (n.d.t.).
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Tutta la nazione d’Israele era ammaestrata su questo principio dai profeti, e ne renderà testimonianza un giorno, davanti al mondo intero, quando le «ossa secche» (Ezechiele 37:4-
saranno vivificate (*); perché, dopo essere stato per molto tempo battuto dalla tempesta, Israele «fiorirà come il giglio» (Osea 14:5).
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(*) Le «ossa secche» che si ricompongono per formare un corpo prefiguravano la «risurrezione» della nazione d’Israele dopo tanti secoli di dispersione e di persecuzione. Noi stiamo già assistendo a questa rinascita descritta da Ezechiele (n.d.t.).
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Il Signore Gesù «duce e perfetto esempio di fede» (Ebrei 12:2) — è forse necessario dirlo? — realizzava questo principio al più alto grado di perfezione. Noi pure, suoi eletti e suo popolo, dobbiamo imparare ogni giorno a conoscere «Cristo e la potenza della sua risurrezione, e la comunione delle sue sofferenze» (Filippesi 3:10).
È vivendo per fede che agli antichi fu resa buona testimonianza (Ebrei 11:2). Fu così dei santi in tutte le età, perché senza la fede è impossibile piacere a Dio; e questa fede, avendo lo sguardo rivolto alle cose invisibili e future, conta su Colui che è il rimuneratore di quelli che lo cercano; essi, dei quali il mondo non era degno, vissero la vita della fede, la vita di un popolo morto e risuscitato (Ebrei 11).
Il discorso di Stefano davanti al Sinedrio (Atti 7) afferma la stessa cosa. I personaggi, Abrahamo, Giuseppe e Mosè, dei quali fa menzione, furono dei grandi testimoni di questa stessa vita; ed egli stesso, nel momento solenne nel quale espone la sua vita per la causa del suo Maestro, ne spiega tutta la forza e la virtù, per la potenza dello Spirito Santo che gli fa contemplare le gioie e le glorie di Gesù risuscitato.
Ora, io credo che il libro di Giobbe abbia principalmente lo scopo di esporre questa verità. È la storia di un eletto, di un figlio della risurrezione. La sua celebre confessione dimostra che aveva compreso la risurrezione come dottrina, mentre doveva ancora conoscerne la potenza nella sua anima. Era un punto essenziale della sua fede, ma non il principio della sua vita.
Fu una dura lezione per lui, una lezione veramente penosa da ricevere. Non gli piaceva, come non piace a nessuno di noi, prendere su di sé la sentenza di morte, affinché non avesse più alcuna fiducia in se stesso, nelle sue circostanze esteriori o nella sua condizione naturale, ma in Dio che risuscita i morti. «Morrò nel mio nido» (29:18); tale era il suo pensiero e la sua speranza. Ma dovette vedere il suo nido spogliato da tutto ciò di cui la natura l’aveva colmato, ciò di cui le circostanze lo avevano abbellito.
Questo santo uomo di Dio, che era onorato e gradito, doveva dunque realizzare la vocazione alla quale sono chiamati tutti gli eletti; doveva ricevere personalmente la lezione della risurrezione, o la vita della fede nel senso pratico. Leggendo quanto ci è ricordato dei credenti delle età passate, si nota che essi non avevano tutti la stessa esperienza delle cose; e non solo non avevano fatto molti progressi, ma piuttosto avevano mancato, tutti, più o meno. Possiamo trarre da questo una consolazione per noi, cari fratelli, che ci sentiamo così piccoli nei loro confronti.
Vediamo, per esempio, Abrahamo che si comporta in modo indegno della sua vocazione quando rinnega sua moglie davanti al Faraone d’Egitto. La sua condotta, in quella circostanza, rassomiglia poco a quella di un uomo morto e risuscitato, d’un uomo di fede; e tuttavia, quale bell’esempio di abnegazione dimostra quando lascia la scelta del paese a suo nipote Lot! (Genesi 12:10-20, Genesi 13:5-16). L’apostolo Paolo stesso, il grande campione della verità, che ha reso una potente e costante testimonianza davanti agli altri di questa vocazione, sia con discorsi eloquenti, sia colle sue azioni, quest’uomo di Dio, dico, in un momento critico, si serve della dottrina stessa della risurrezione come di un pretesto per mascherare il suo pensiero (Atti 23:6).
Possiamo ricavare da tutto questo degli incoraggiamenti e delle consolazioni per le nostre anime. È prezioso sapere che abbiamo una sorte comune con tutti coloro che ci hanno preceduti nella fede, così come con tutti quelli che vivono ora un’esistenza di fede nel loro Salvatore. È evidente che essi hanno fatto brillare, in più di una occasione, la luce della vita alla gloria del loro Signore, e che, altre volte, non sono stati coerenti con la loro posizione e la chiamata che hanno rirrvtito. Ognuno di noi sa, per esperienza personale, come vanno le cose. C’è soltanto da segnalare che noi, che siamo considerati fra i discepoli di Gesù, che possediamo il Nuovo Testamento, dobbiamo ricevere la stessa lezione su una pagina più ampia e con un metodo più chiaro di quello che fu usato con Giobbe.