La 2a epistola di Paolo a Timoteo cap 1
Henri Rossier
Introduzione
La seconda epistola a Timoteo, ultimo scritto dell'apostolo Paolo, è di un'importanza speciale per i giorni in cui viviamo. Paolo, imprigionato per la seconda volta a Roma, sapeva che il tempo della «sua partenza» era giunto. In che stato lasciava la Chiesa, la Casa di Dio, di cui egli come saggio architetto aveva posto il fondamento? Questa Chiesa responsabile era ancora nella sua condizione primitiva? Era ancora simile alla descrizione che ne faceva a Timoteo, suo figlio in fede, nella prima epistola quando gli dava istruzioni su come bisogna comportarsi? No! Il bell'inizio di un tempo era stato sostituito da un'indifferenza quasi generale. Le false dottrine, l'opposizione alla verità, affioravano sempre più. L'avvenire era oscuro, e non offriva alcuna speranza al miglioramento; anzi, l'apostolo preannuncia che il male si sarebbe aggravato e che la storia della Chiesa responsabile sarebbe andata degenerando in quella di un cristianesimo professante senza vita. Il declino, già constatato al principio della sua storia, non si sarebbe fermato. Col sopraggiungere dei tempi profetici a venire, il suo stato sarebbe arrivato fino alla più completa decadenza morale. All'inizio del suo ministero, l'apostolo aveva già dichiarato che l'ultima forma del male sarebbe stato l'apostasia, il rinnegamento stesso del cristianesimo, dopo il rapimento della Chiesa, al sopraggiungere dell'Anticristo (2 Tessalonicesi 2:3-12). Poi, prima ancora della sua prima prigionia, aveva annunciato agli anziani di Efeso che dopo la sua partenza sarebbero entrati tra loro dei lupi rapaci che non avrebbero risparmiato il gregge (Atti 20:29). La condizione morale descritta nell'epistola che stiamo affrontando non era altro che la sensazione e il preludio di uno stato morale che andava peggiorando man mano che i tempi della fine si avvicinavano.
Dinanzi a questo stato di cose, quale doveva essere il comportamento del credente chiamato ad attraversarlo? Domanda importante e seria che l'apostolo rivolge a Timoteo, come anche a qualsiasi altro credente desideroso di glorificare il suo Maestro nel tempo attuale. Questo comportamento diventa necessariamente sempre più individuale, per quanto i fedeli siano chiamati a raggrupparsi per servire il Signore in mezzo ad uno stato di cose che non può più essere riformato.
Nondimeno, ci consola molto il fatto che esistono per il credente delle risorse che sono a sua disposizione per attraversare tempi in cui potrebbe correre il rischio di perdere coraggio non trovando una via d'uscita. Queste risorse, come vedremo, sono perfette e tali da rendere il fedele capace di riportare individualmente la vittoria nella lotta e di glorificare Dio come nei più bei tempi della storia della Chiesa. Per questo incontreremo continuamente, in questa epistola, il rimedio indicato di volta in volta man mano che il male è messo in risalto. Vi sono così tanti pericoli, che il testimone di Cristo, conscio della sua propria debolezza, ha bisogno di essere incoraggiato, consolato, esortato, per assolvere bene il proprio compito; e arrivato alla fine della corsa riceverà la corona promessa alla fedeltà, dopo aver riportato la vittoria. È ciò che ci viene presentato nelle continue esortazioni rivolte a Timoteo in questa lettera. Per quanto riguarda l'apostolo Paolo, egli si presenta come esempio al suo caro figlio, prendendo personalmente esempio dalle sofferenze del suo Maestro e Signore. Egli si distingue per una forte fede personale in presenza della rovina della Chiesa che altro non è ormai che «una grande casa», invece di essere «la casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (2 Timoteo 2:20; 1 Timoteo 3:15). La rovina non fa tremare affatto la sua fede anche se gli procura un'infinità di sofferenze.
Ecco, in poche parole, il contenuto di questa preziosa epistola, ultima eredità lasciata dall'apostolo a quelli che stavano per succedergli nella sua carriera cristiana, e quindi anche a noi.
Come sempre, le risorse che ci son presentate si riassumono in un solo nome, Gesù Cristo, come ce lo rivela la sua Parola. Con una tale guida e con una tale provvista di forza, il credente è più che vincitore. Tra le sofferenze e gli ostacoli, possiede una speranza ed una potenza che la rovina della casa di Dio non può colpire, perché queste benedizioni sono basate sulla persona divina e immutabile di Colui che è risuscitato d'infra i morti; sulle sue promesse, e sulla Parola che ci lo rivela.
1. Capitolo 1
1.1 Indirizzo e saluto
Vers. 1-2. — «Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù, a Timoteo, mio caro figlio, grazia, misericordia, pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore».
Sembra che l'espressione «per volontà di Dio», che si trova anche nelle epistole ai Corinzi, agli Efesini e ai Colossesi, acquisti in questo passo una forza particolare per le circostanze che l'apostolo attraversava. La sua propria volontà è completamente messa da parte e vi trova lo spunto per avere una totale fiducia in un tempo in cui si cercava di mettere addirittura in discussione il suo apostolato. Ma egli si appoggia su questa certezza: sia egli apostolo in libertà o in catene, in prigionia mitigata o severa come era allora, resta fermo il fatto che era «apostolo per volontà di Dio». Un tempo il suo apostolato si era mostrato nei viaggi, nella predicazione tra le folle, nelle campagne e nelle città; poi in prigione, per iscritto o rivolgendosi oralmente ai suoi compatrioti o ai suoi giudici; in un tempo di prosperità spirituale per la Chiesa, o, come qui, in un tempo di declino, nulla poteva cambiare il grande fatto che egli era apostolo per volontà di Dio e che Dio guidava secondo la Sua volontà tutte le circostanze della sua vita. Se il suo apostolato non fosse stato per volontà di Dio, in che condizioni morali ci troveremmo noi oggi, privi della parola di questo apostolo per insegnarci il cammino gradito a Dio nel momento in cui la testimonianza affidata alla Chiesa sta per fallire? Tutta la potenza della sua missione esisteva ancora nell'epoca descritta in questa seconda epistola a Timoteo; a maggior ragione essa deve esistere nei giorni in cui viviamo noi, dal momento che l'attività stessa dell'apostolo è posta sotto i nostri occhi in questa parola infallibile uscita dalla sua penna per mezzo dello Spirito di Dio.
In linea di massima, l'apostolato di Paolo si proponeva di portare il nome di Cristo «davanti ai Gentili, ai re, e ai figli d'Israele» (Atti 9:15); così Paolo è chiamato «apostolo di Gesù Cristo». Questo unico nome caratterizzava l'intero soggetto della sua missione. In rapporto con questo nome, Paolo portava l'Evangelo di Dio davanti agli uomini, Evangelo che aveva come contenuto la rovina irrimediabile del vecchio uomo, una nuova natura comunicata all'uomo per la fede in Cristo, una vita nuova per mezzo dello Spirito Santo in Cristo risuscitato, la glorificazione, la pace, la libertà, la gloria, e tutto questo in pieno contrasto con Israele e la legge. Il suo apostolato, inoltre, a differenza di quello degli altri apostoli, aveva come scopo speciale la Chiesa, costituita «corpo unico», col suo Capo glorioso nel cielo, per mezzo della discesa dello Spirito Santo; la Chiesa edificata da Cristo; la Chiesa come casa di Dio affidata alla responsabilità dell'uomo.
Nondimeno, nel passo che abbiamo letto, Paolo non ci parla, come in altre epistole, del soggetto del suo apostolato, ma risale il più lontano possibile, nell'eternità passata, per mostrarcene il carattere. Questo apostolato è «secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù», vita che l'apostolo possedeva. Il carattere del suo apostolato non era più dunque né la potenza, né i doni miracolosi, ma il possesso di una vita che era dai tempi eterni, di una vita per l'eternità. Quando tutto è scosso, questo fondamento non può esserlo; esso dava una sicurezza assoluta all'apostolo. Questa promessa della vita è molto anteriore alle promesse di cui Abramo era il depositario. Essa è in Cristo Gesù, e solo in Lui possiamo trovare questa vita. Questo significa che tutti gli uomini sono sotto la sentenza della morte e che questa sentenza è abolita in Cristo. Chiunque ha ricevuto il Cristo per fede possiede questa vita, dono supremo di Dio; e non c'è nessuna incertezza; si tratta di una promessa alla quale Dio è fedele. Ma la parola «promessa» non implica una cosa futura, ma una cosa compiuta, attuale ed eterna, come vedremo al versetto 10. La vita promessa ci appartiene. È Cristo in noi e noi in Lui. Essa rendeva il carattere dell'apostolato di Paolo assolutamente stabile e incrollabile, anche se stava andando in rovina una gran parte di tutto quello che aveva edificato.
«A Timoteo, mio caro figlio», è un'espressione di particolare tenerezza, molto più intima di «mio legittimo figlio nella fede» di 1 Timoteo 1:2, e di «mio figlio legittimo secondo la fede che ci è comune» di Tito 1:4. Timoteo, giovane di carattere tenero, ma soggetto allo scoraggiamento, aveva bisogno di questo segno di particolare affetto, anche per essere capace di ricevere le esortazioni che l'apostolo gli rivolgeva molto più insistentemente che nella prima epistola. I pericoli legati alla posizione di Timoteo (non parliamo della sua missione perché non c'è nessuna prova che l'apostolo gli inviasse questa epistola ad Efeso) si erano considerevolmente acuiti nell'intervallo tra le due epistole; erano trascorsi diversi anni, e Paolo stesso si rendeva conto, durante questa seconda prigionia a Roma, che il tempo della sua dipartita era giunto. «Io sto per essere offerto in libazione», diceva (4:6). La libazione era quella che si faceva insieme al sacrificio (Esodo 29:40).
1.2 Affetto di Paolo per Timoteo
Vers. 3-4. — «Ringrazio Dio, che servo come già i miei antenati con pura coscienza, ricordandomi regolarmente di te nelle mie preghiere giorno e notte; ripenso alle tue lacrime e desidero intensamente vederti per essere riempito di gioia».
Qui Paolo dice: «Ringrazio Dio». Non parla né del Padre, né del Figlio, ma del Dio di Israele che i suoi antenati avevano servito. Questo va più lontano, indubbiamente, del servizio delle «dodici tribù» di cui parla in Atti 26:7. Alla vigilia del suo martirio i suoi pensieri vanno alla fede dei suoi antenati. Egli che aveva dovuto tanto combattere per far trionfare l'Evangelo sul giudaismo, ora può dire ciò che la religione della legge aveva potuto presentare di accettevole a Dio: la fede. La fede che accetta e crede la rivelazione di Dio era una fede che salvava. Abraamo credette a Dio; e gli antenati di Paolo erano dei veri figli di Abraamo. L'apostolo ne condivideva la fede, anche se una rivelazione completamente nuova era venuta ad aggiungersi. Paolo poteva servire Dio «con pura coscienza», il che non era possibile per i suoi antenati sotto la legge. Occorreva l'aspersione del sangue di Cristo per purificare il cuore «da una cattiva coscienza» (Ebrei 10:22), il sangue di un sacrificio diverso dai sacrifici levitici, per non aver più nessuna coscienza di peccato (Ebrei 10:2). La legge poteva farlo soltanto in figura (Esodo 29:21), ma mai nella realtà. Adesso l'apostolo, nel momento in cui lascia la scena di questo mondo, può dare uno sguardo indietro e ricordarsi con gioia che i suoi antenati avevano un posto nelle benedizioni future, e che egli andava a incontrarli nel riposo celeste dove lo avevano preceduto.
Paolo era riconoscente a Dio del ricordo costante che aveva di Timoteo nelle sue supplicazioni; anche il ricordo era un dono della grazia di Dio! Indubbiamente, il grande amore di Paolo per il suo figlio in fede gli impediva di dimenticarlo; ed egli era anche convinto che Dio stesso si interessava dello stato di Timoteo, che ne conosceva i bisogni, i pericoli, i timori, e che teneva costantemente conto delle preghiere che il suo apostolo gli rivolgeva notte e giorno a questo riguardo.
Aveva anche un grande desiderio, quello di riveder Timoteo, e anch'esso faceva parte delle sue supplicazioni, tanto più che si ricordava delle sue lacrime quando si era dovuto separare da lui al momento della seconda cattura, a cui seguì questo secondo imprigionamento. Che grande dispiacere avrà dovuto provare Timoteo anche solo al pensiero che il suo padre nella fede, fedele servitore di Cristo, andava verso il supplizio! Ma tutte le raccomandazioni di Paolo in questa epistola ci danno la prova che Dio gli avrebbe effettivamente accordato di rivederlo. In mezzo a queste cupe e dolorose prospettive, il Signore preparava per il suo fedele apostolo questo incontro che doveva arrecargli una gioia profonda.
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Vers. 5. — «Ricordo infatti la fede sincera che è in te, la quale abitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice, e, sono convinto, abita pure in te»
Ricordandosi di Timoteo, della sua tenerezza, delle prove d'amore che ne aveva ricevuto, l'apostolo si ricorda nello stesso tempo delle donne di fede ch'egli aveva avuto nella sua famiglia; e questo ricordo aveva certo molto più valore di quello dei suoi stessi antenati. Paolo era stato colpito della fede «sincera» riscontrata in Timoteo quando lo conobbe a Listra (Atti 16:1-3); e quella fede da allora non aveva subito variazioni, ma aveva trovato in questa famiglia, nella madre e nella nonna, un ambiente favorevole al suo sviluppo. La pietà era in quelle donne e abitava anche in lui, l'apostolo ne era persuaso, nel momento stesso del loro incontro, perché allora Timoteo era già discepolo. Questo ricordo era per Paolo di grande conforto, ora che giungeva alla fine della sua carriera.
Nel momento in cui il servizio e la nostra testimonianza sono terminati, in cui non ci sono più le energie e le possibilità di dedicarsi completamente all'opera, è prezioso fissare lo sguardo sul passato e sulle affezioni naturali. Ne troviamo l'esempio perfetto alla croce del Signore, dove sentiamo queste parole dalla sua bocca: «Donna, ecco tuo figlio», e ancora: «Ecco tua madre»; mentre, durante l'esercizio del suo ministero, diceva: «Che c'è fra me e te, o donna?» oppure: «Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?». Non che il servizio raffreddi il cuore e gli affetti, ma proprio perché essi son tanto dolci, toglierebbero qualcosa al compito che ci è affidato se ci lasciassimo trattenere dalla dolcezza delle relazioni naturali; è detto nei Proverbi: «Figlio mio, mangia il miele perché è buono», ma anche: «Mangiare troppo miele, non è bene» (Proverbi 24:13; 25:27)
1.3 Il ministero di Paolo e Timoteo legato al consiglio di Dio. Ma ci sono sofferenze nel ministero
Vers. 6. — «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il carisma di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani».
È in virtù della «fede sincera» che è in lui che l'apostolo esorta Timoteo a ravvivare il dono della grazia che egli possiede, vale a dire a non lasciarlo spegnere. Un dono può spegnersi per mancanza di uso. Il dono di Timoteo aveva per scopo l'esposizione della Parola, l'esortazione, l'insegnamento (1 Timoteo 4:13); gli era stato conferito per combattere gli insegnamenti satanici che cominciavano a introdursi nella Chiesa (1 Timoteo 4:1). Aveva altri aspetti, senza dubbio, ma tutto sommato, corrispondeva a quello di pastore e di dottore di Efesini 4:11. Al capitolo 4:14 della prima epistola, Timoteo è esortato a «non trascurarlo»; e poteva capitare, per una certa timidezza di carattere che lo avrebbe indotto a cedere dinanzi a coloro che avrebbero approfittato della sua giovinezza per disprezzarlo e far valere sé stessi.
Dobbiamo ritenere molto prezioso un dono che Dio ci ha dato, sempre badando bene a non esaltare noi stessi. Una vera umiltà caratterizzerà colui che si rende conto che il suo dono proviene unicamente da Dio. L'umiltà di Timoteo lo induceva a trascurare il dono piuttosto che a farsene vanto; anche questo costituisce un pericolo. Così, può trovarsi da un lato l'orgoglio della carne che si attribuisce il dono, dall'altro un certo timore carnale che impedisce di farlo valere, e di esercitarlo, poiché la sfiducia in se stessi e l'eccessiva timidezza sono ancora «l'io». Stimarci meno di niente, delle nullità, ci potrebbe indurre a stimare il dono poca cosa, invece di stimarlo molto, come tutto ciò che viene da Cristo.
Timoteo, però, correva un altro rischio. Dinanzi al triste stato della Chiesa, al disprezzo a cui era esposto l'apostolo Paolo, al poco risultato che avevano avuto le sue esortazioni e i suoi insegnamenti, al male che andava aumentando al punto che i servitori del Signore erano attaccati ed esposti all'obbrobrio, poteva sembrare che l'esercizio di un dono fosse ormai inutile. Per questi motivi, ecco l'esortazione dell'apostolo a ravvivarlo.
Quali che siano le circostanze, la nostra responsabilità verso ciò che Dio ci ha affidato rimane piena e totale, e dobbiamo assolvere il nostro compito guardando attentamente a Lui senza tener conto dello stato di rovina della Chiesa e della testimonianza. Se si tratta dell'insegnamento, insegniamo; se si tratta delle cure del gregge, esercitiamo il pastorato senza preoccuparci del numero grande o esiguo delle pecore. Lo spirito di timidità (v. 7) non è lo Spirito Santo, ma è semplicemente la carne; ed è pericoloso, anche se meno dalla fiducia in sé stessi. Esso paralizza la nostra energia spirituale, mentre la fiducia in sé sostituisce l'energia della carne a quella dello Spirito di Dio.
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Vers. 7. — «Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d'amore e di autocontrollo».
Timoteo doveva dunque ravvivare il suo dono, perché Dio, dice l'apostolo, non ci ha dato uno spirito di timidità. La timidità e lo Spirito sono incompatibili. La timidità è titubante davanti al compito proprio dove ci vorrebbe la risolutezza, il coraggio, la fede e l'audacia che sormonta gli ostacoli e che non si spaventa della tempesta sul mare perché il Signore è con noi nella barca, potente di far scendere una gran calma nel momento in cui le onde minacciano di inghiottirci.
Parlando dello spirito di timidità, l'apostolo riconduce i pensieri di Timoteo al dono dello Spirito Santo, alla benedizione iniziale della Pentecoste. La potenza dello Spirito che possediamo resta la stessa e non cambia mai, nemmeno nei tempi più tristi della Chiesa. Allo Spirito possiamo mettere degli impedimenti, contristarlo, di modo che sia obbligato a restare inattivo, ma esso non è affatto indebolito. Nulla gli impedirà di riempire il vaso in cui è stato versato. Il suo silenzio deriva dalla nostra mondanità e dal fatto che conserviamo nei nostri cuori degli idoli coi quali lo Spirito Santo non può convivere, in noi che siamo il suo tempio.
Ciò che caratterizza lo Spirito Santo di cui noi siamo «i vasi», non è soltanto la potenza, è anche l'amore. Le anime non sono attirate a Cristo per mezzo della potenza soltanto; ciò che le attira è l'amore. La potenza può far precipitare Satana dal cielo a guisa di folgore, può sottoporsi gli spiriti malvagi, convincere quelli che contraddicono; l'amore agisce come una calamita. È lui che dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi»; è lui che ci apre il cielo e vi scrive i nostri nomi per sempre, che ci rivela il cuore del Padre e quello del Figlio; e ci dice: Coraggio, non temere, non piangere...
Timoteo doveva anche ricordarsi che lo Spirito dato da Dio è uno Spirito di autocontrollo o di correzione o di sobrio buon senso. Dopo esser diventati i recipienti dello Spirito Santo, abbiamo bisogno di una direzione. Nel tempo di rovina della Chiesa, non avremo più le manifestazioni sorprendenti di potenza, o doni miracolosi, che al principio caratterizzavano il ministero degli apostoli e dei primi discepoli; oggi la potenza è volta a resistere contro l'irruzione sempre crescente del male, a tener ferma la verità, a vincere nuotando contro la corrente che trascina rapidamente la cristianità verso l'apostasia finale. Non si tratta neppure di esaltazione mistica, che in fondo non è altro che l'adorazione di se stessi; ma di uno Spirito che pesa con calma le circostanze sotto lo sguardo del Signore, che giudica equamente secondo le circostanze, che non pretende a grandi cose (vedere Geremia 45:4 — sarebbe rinnegare la rovina generale e umiliante di cui siamo tutti responsabili) e agisce in un cerchio ristretto che un sobrio buon senso ci traccia attorno. Questo spirito non trema, non si lascia intimidire di fronte ai risultati della sua azione; procede con calma nel sentiero che Dio gli ha tracciato, senza esibizionismo, senza strepito, ma sviluppando i suoi caratteri di forza e di amore.
Questi tre caratteri dello Spirito li troviamo trattati in tutta la prima epistola ai Corinzi: al capitolo 12 lo Spirito di forza, al capitolo 13 lo Spirito di amore, al capitolo 14 lo Spirito di correzione. Quest'ultimo ha come risultato di fare di noi non dei bambini, ma «quanto al ragionare, uomini compiuti» (1 Corinzi 14:20). Non espone i figli di Dio ad esser presi per pazzi dai non credenti (v. 23); esige che qualcuno interpreti se un fratello parla in altra lingua (v. 13), e si oppone ad ogni azione delle donne nelle riunioni dell'assemblea (v. 35).
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Vers. 8. — «Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio».
Come abbiamo già notato, questa epistola contiene molti concetti di cui dovremo occuparci man mano che procediamo. Eccoli:
La descrizione del male che caratterizza la casa di Dio al tempo della fine.
Le risorse che i fedeli possiedono per camminare in un modo degno di Dio glorificandolo in mezzo a questo male.
Le esperienze personali dell'apostolo in un tale stato di cose.
Le esortazioni a Timoteo per condursi personalmente in un modo degno di Dio. Queste esortazioni, cominciate dal vers. 6, continuano al vers. 8.
Negli ultimi giorni della vita dell'apostolo la testimonianza cristiana era esposta agli assalti del nemico per corromperla. All'inizio essa si conservava pura, anche se era oggetto di persecuzione e di odio, poiché diversamente non sarebbe stata la «testimonianza di Dio». Ma da allora è iniziato il suo declino a causa della infedeltà dell'insieme della famiglia di Dio. Al tempo della seconda epistola a Timoteo, questa testimonianza era, in apparenza, già rovinata, e lo Spirito si serve della sua condizione di allora per descriverci profeticamente quel che essa è oggi e quel che sarà alla fine dei giorni. L'apostolo, messo in una posizione di spicco in questa testimonianza, era incarcerato; l'Evangelo era disprezzato e i credenti perseguitati, contrariamente a quanto accadeva al principio, quando la fedeltà dei testimoni produceva preziosi risultati.
Vedendo svanire ogni speranza dal punto di vista umano, si capisce come la vergogna della testimonianza crisitiana avrebbe potuto opprimere il cuore di Timoteo, per quanto fosse fedele come il suo caro padre in fede. Si resti pure umiliati quanto alla nostra testimonianza, ma mai quanto alla testimonianza del nostro Signore! Questa è la nostra consolazione e l'unica risorsa in un tempo di declino; non si tratta di appoggiarci sulla nostra testimonianza, ma su quella infallibile del Signore. Questa non può mai sprofondare, anche se noi ci affliggiamo con ragione sulle rovine di ciò che è stato affidato alla nostra responsabilità. Il Signore manterrà fino alla fine la sua testimonianza e le verità che la costituiscono, in un modo o nell'altro, fino alla sua venuta. Timoteo, vedendo in prigione il portatore eminente di questa testimonianza avrebbe potuto aver vergogna. No! dice l'apostolo. Paolo non si trovava là in una condizione vergognosa; non era il carcerato degli uomini, ma il carcerato del Signore. Egli lo teneva là per la Sua propria testimonianza. La Sua Parola fu completata proprio da Paolo carcerato; e in Paolo carcerato Dio si è glorificato dinanzi al mondo. Paolo carcerato è rimasto solo quando tutti l'hanno abbandonato; a questo riguardo, come sotto tanti altri aspetti, è stato simile al suo Maestro; è stato il suo rappresentante davanti al mondo.
Timoteo, se poteva essere esortato a non avere vergogna, aveva sotto gli occhi l'esempio dell'apostolo che dice al versetto 12: «Non me ne vergogno». Inoltre, al versetto 16, Onesiforo è citato come un fratello fedele che non si è vergognato delle catene dell'apostolo. Questo gli sarà messo in conto nel giorno delle ricompense. Più tardi, nelle esortazioni rivolte a Timoteo (cap. 2:15), l'apostolo lo esorta ancora, come aveva fatto riguardo alla timidezza, a non aver vergogna nell'esercizio del suo ministero, e non pensare né a sé, né agli uomini, ma unicamente a Dio per essere approvato da Lui. Questo non doveva forse bastargli?
«Ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio». In un tempo di declino, come quello che il grande apostolo dei Gentili e il fedele Timoteo attraversavano, la testimonianza della Chiesa di Cristo era screditata, per colpa di coloro che ne erano i portatori, e gli occhi della fede dovevano volgersi sulla testimonianza del Signore che, non potendo essere annientata, si adattava alle tristi circostanze della Chiesa per raggiungere il suo scopo. Ma non soltanto la testimonianza della Chiesa di Cristo era screditata ma anche l'Evangelo (la buona novella presentata agli uomini come apportatrice di salvezza) che, invece di essere esaltato, era rigettato, e coperto d'obbrobrio nella persona di quelli che lo portavano. Timoteo doveva soffrire anche lui per l'Evangelo. Non era forse stato lo stesso per Gesù Cristo? Era forse stato ricevuto con gli onori e la riconoscenza dovuti alla salvezza che portava? No, anzi era stato rigettato, oltraggiato, crocifisso! I fedeli dovevano partecipare a queste sofferenze che erano all'ordine del giorno, e il Signore le aveva annunciate ai suoi discepoli prima di lasciarli. Indubbiamente, vi erano stati dei tempi in cui i fedeli, ben uniti e stretti insieme, avevano combattuto come un esercito disciplinato, in uno stesso spirito, con un medesimo animo e una medesima fede per il trionfo dell'Evangelo. Ora Satana sembrava avere il sopravvento, e i cristiani dovevano adattarsi a quelle circostanze e partecipare a quelle sofferenze speciali; ma ci voleva una potenza più grande del passato, la potenza di Dio, per sopportare quelle sofferenze e per sostenere e far trionfare, malgrado tutto, l'Evangelo nel mondo.
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Vers. 9 e 10. — «Egli ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, non a motivo delle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la grazia che ci è stata fatta in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma che è stata ora manifestata con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l'immortalità mediante il vangelo, in vista del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e dottore».
Questa potenza di Dio non è diminuita a motivo della nostra infedeltà; si è mostrata nella nostra salvezza, ci ha rivolto una santa chiamata ad esser santi e irreprensibili davanti a Lui nell'amore, e sarà pienamente realizzata quando saremo con Cristo e simili a lui nella gloria, anche se fin da adesso ci separa dal mondo per Dio (Efesini 1:4). La rovina non può colpire questa salvezza né questa chiamata. Quel che Dio ha dato, l'ha dato dall'eternità e per l'eternità. La stessa potenza di Dio che ci chiama a soffrire in mezzo alla rovina, ci ha stabiliti per sempre in mezzo alle cose immutabili!
Notate che in questo passo, nonostante che tutto sia caratterizzato dalla debolezza, anche nell'animo di un fedele testimone come Timoteo, l'apostolo insiste sulla forza, quella della Trinità con noi: la forza dello Spirito per togliere la timidezza (v. 7); la potenza di Dio per farci partecipare alle sofferenze dell'Evangelo (v.
; la potenza di Cristo per conservare intatto ciò che l'apostolo gli ha affidato (v. 12). Non una parola sulla nostra propria forza, poiché non ne abbiamo. Anzi, essa si compie nella debolezza (2 Corinzi 12:9), ed era questa l'esperienza che Timoteo doveva fare come l'aveva già fatta l'apostolo prima di lui.
La menzione di questa potenza di Dio induce l'apostolo a esporre ciò che essa ha fatto per noi. Che descrizione meravigliosa! Prima di tutto, come abbiamo già visto, per mezzo d'essa abbiamo la salvezza e la santa chiamata; la salvezza abbraccia tutta l'opera della grazia a nostro favore, dal perdono dei peccati fino all'entrata nel cielo; la santa chiamata ci fa pensare alla nostra perfetta conformità con Cristo nella gloria: santi e irreprensibili dinanzi a Lui nell'amore. La grazia di Dio non ha nulla a che fare con la nostra attività né con le nostre opere, ma dipende unicamente dal proposito eterno di Dio. Ci è stata fatta in Cristo Gesù avanti i secoli (v. 9); è stata manifestata con l'apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù (v. 10); è in Lui (Cap. 2:1); da essa possiamo attingere ogni giorno e ogni momento la forza di cui abbiamo bisogno, perché è inesauribile.
È un immenso privilegio che questa grazia sia manifestata ora con la prima apparizione del nostro Salvatore Gesù Cristo, e ne conosciamo i risultati immutabili fin da quaggiù. Essi sono di due tipi:
La morte, salario del peccato, è annullata. Questo non vuol dire soltanto che il diavolo, detentore del potere della morte, è stato reso impotente alla croce, ma che la morte è stata annullata per mezzo della risurrezione di Cristo. Egli non ha potuto essere ritenuto dalla morte, in cui è entrato volontariamente, ma è risuscitato dai morti e si è seduto, uomo glorificato, alla destra di Dio. Per Lui la morte non esiste più. Ma perché vi è entrato e ne è uscito? Perché la potenza della morte su di noi potesse per sempre essere annientata.
Ma la grazia manifestata con l'apparizione di Cristo non solo ha annullato la morte; ha anche prodotto in luce la vita e l'immortalità (o l'incorruttibilità) mediante l'Evangelo. La vita era la luce degli uomini (Giovanni 1:5). Essa aveva noi in vista. Ora risplende agli occhi degli uomini nella risurrezione di Cristo. Senza questa risurrezione la vita sarebbe rimasta nascosta. Indubbiamente poteva produrre i suoi effetti, ciò è stato dimostrato da tutta la carriera di Cristo quaggiù: le sue parole erano Spirito e vita quando erano ricevute per la fede; inoltre, quando risuscitava i morti, il Signore comunicava loro la vita, ma una vita destinata ad essere di nuovo interrotta dalla morte. Nella sua persona la vita risplendeva, una vita che né la morte, né la corruzione potevano colpire. Ora è adempiuta la «promessa della vita» del versetto 1. Cristo ha lasciato la sua vita umana (era per questo che l'aveva presa), e lasciandola ha fatto risplendere una vita che la corruzione non potrà mai intaccare. L'incorruttibilità è stata finora manifestata soltanto nella Sua persona, come era scritto: «non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione» (Salmo 16:10 — versione Nuova Diodati), poiché bisogna che in ogni cosa Egli abbia il primato. Quanto a noi, per mezzo della sua opera, possediamo già la vita eterna per le nostre anime, ma non l'incorruttibilità per i nostri corpi; alla sua venuta, la rivestiremo. Allora essergli simili sarà una realtà. Il Signore ha fatto risplendere queste cose per mezzo dell'Evangelo, poiché esso ci porta questa vita e questa speranza.
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Vers. 11. — «...in vista del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e dottore».
La prigione e le catene non cambiavano nulla a questa missione. In questa epistola vediamo Paolo esercitare il suo apostolato senza ostacolo alcuno. Inoltre, il credente è istruito sulle verità immutabili dell'Evangelo, che nessuna rovina può raggiungere: la vita eterna, la grazia data in Cristo prima dei tempi, l'annullamento della morte, la manifestazione della vita e dell'incorruttibilità.
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Vers. 12. — «È anche per questo motivo che soffro queste cose; ma non me ne vergogno, perché so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito (cioè «quel che gli ho affidato») fino a quel giorno».
L'Evangelo annunzia in questo modo la fine delle conseguenze del peccato, cioè della morte, e l'introduzione di una cosa completamente nuova: la vita, che non potrà essere attaccata dalla corruzione che regna nel mondo; è in vista di un tale Evangelo che l'apostolo aveva ricevuto la sua missione fra le nazioni, missione universale, poiché non aveva soltanto in vista il popolo giudeo. Paolo aveva una tale convinzione dell'importanza di questa missione che non indietreggiava nemmeno davanti alle sofferenze rese mille volte più cocenti dall'abbandono di molti di coloro che avevano ricevuto quel beato messaggio. E non si vergognava, ma alzava il capo con fierezza, poiché sapeva in chi aveva creduto. Egli conosceva la persona di Colui nel quale aveva posto la sua fiducia; ed è proprio la conoscenza di questa persona, e non solo delle sue opere, che eleva l'anima nostra al di sopra delle difficoltà, dei pericoli, degli ostacoli del cammino.
Troviamo una verità simile nel Salmo 27. La contemplazione della presenza dell'Eterno eleva il capo del credente al di sopra dei suoi nemici. Conoscendo questa Persona, Paolo si sente al sicuro perché vive dove risiede la potenza. Se noi avessimo fiducia nell'opera che ci è stata affidata, per preziosa che sia, saremmo abbattuti e delusi vedendola rovinata e forse distrutta fra le nostre mani. Persino il grande apostolo dovette assistere a questa rovina negli ultimi giorni della sua carriera. Si sarebbe scoraggiato se non avesse conosciuto la persona in cui si era mostrata la realtà di questo Evangelo della vita e dell'incorruttibilità. Questo gli dava una perfetta sicurezza. Cristo aveva la potenza di custodire ciò che Paolo gli aveva affidato, e Paolo aveva piena fiducia in Lui. L'apostolo affidava alla Sua custodia l'anima sua e il suo corpo, il risultato della sua opera e l'avvenire della testimonianza, e tutto ciò che il Signore aveva affidato alla sua responsabilità. Egli solo aveva la potenza di custodire intatto il deposito che, lasciato fra le sue mani d'uomo, sarebbe stato irrimediabilmente perduto. Egli lo avrebbe salvaguardato «fino al quel giorno», fino al giorno della sua apparizione in gloria con tutti i suoi riscattati. Quel giorno sarà anche quello delle ricompense (vedere vers. 18).
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Vers. 13. — «Prendi come modello le sane parole che hai udite da me con la fede e l'amore che si hanno in Cristo Gesù».
Dopo aver esposto il suo Evangelo e la sua dottrina, l'apostolo rivolge istruzioni ed esortazioni al suo caro Timoteo. La prima esortazione era d'attenersi al «modello» delle sane parole che aveva udito da lui. In un tempo in cui la Parola ispirata non era ancora completata e tutti quelli che ne erano i portatori erano ancora sulla scena, l'insegnamento divino dato da quest'uomo di Dio doveva essere conservato intatto dal suo fedele discepolo. Egli doveva avere per sé l'insieme delle verità che aveva udite, perché vi è più garanzia a ritenere la verità nei termini in cui è stata comunicata. Queste sane parole erano parola di Dio, di cui Timoteo doveva conservare la forma; erano delle parole ispirate, comunicate oralmente, come si vede in 1 Tessalonicesi 2:13. «La sana dottrina» e il «sano insegnamento» non sono altro che la Parola ispirata (vedere 1 Timoteo 1:10; 2 Timoteo 4:3; Tito 1:9; 2:1). Siccome Timoteo doveva comunicare ad altri tali parole, non correva il rischio di alterarle se le ricordava continuamente a se stesso. Era anche ciò che l'apostolo faceva (1 Corinzi 2:12-13). Non erano delle parole aride, delle verità teologiche, poiché Timoteo doveva conservare quel modello «con la fede e l'amore che si hanno in Cristo Gesù». È così che queste cose erano state comunicate dall'apostolo, e così dovevano essere conservate. L'intelligenza naturale non vi entrava affatto; la fede e l'amore che è in Cristo Gesù le comunicavano al cuore ed all'anima, e davano loro tutta la realtà divina.
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Vers. 14. — «Custodisci il buon deposito per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi».
Questo era già stato raccomandato a Timoteo nella sua prima epistola (Cap. 6:20). Un deposito gli era stato affidato; doveva custodirlo fedelmente. Era il buon deposito, le sane parole; non v'era un altro deposito che avesse un tale valore, che meritasse quel nome. La responsabilità di custodirlo è del credente.
Si tratta di non trascurare nessuna di quelle sane parole, non dimenticarle, non lasciarne cadere nessuna a terra come inutile; non introdurvi alcun elemento eterogeneo che possa alterare il suo valore o diminuirne il pregio; essere convinti della perfezione divina di ciò che Dio ci ha affidato; essere occupati, come Timoteo, a farne risaltare il valore di fronte agli altri (non parlo qui dell'esercizio di un dono); stimare quel deposito come il tesoro più prezioso. Ma come possiamo enumerare tutte le sue perfezioni quando lo contempliamo e ce ne nutriamo?
Coloro che lasciano questo deposito fra la polvere, che preferiscono nutrirsi della parola umana piuttosto che di quelle «sane parole», non possono dire di custodirlo solo perché ne hanno un esemplare nella loro casa e lo leggono superficialmente con occhio distratto. Ah, quanti cristiani sono colpevoli, come il malvagio servitore, di nascondere quel tesoro! Forse diranno: Per quanto mi sforzi di capire queste cose, per me sono lettera morta; un sermone mi edifica di più. Volete sapere quel che vi manca? Vi manca di sapere come potete custodire quel deposito: l'apostolo ve lo dice qui: «Per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi». Non dice a Timoteo: Per mezzo dello Spirito che abita in te, ma in noi. Si potrebbe credere che Timoteo, uomo di Dio, fosse, in virtù della sua posizione, più qualificato d'altri per custodire il buon deposito. Invece no. Lo Spirito Santo abitava in lui come in ogni altro cristiano; ed ognuno, dal più umile al più intelligente, è tenuto a custodirlo per mezzo dello Spirito. È soltanto lui che insegna la Parola, la fa comprendere e mettere in pratica. Sovente sono i più intelligenti che custodiscono meno quel buon deposito, poiché la loro intelligenza umana si sostituisce allo Spirito di Dio che solo può far comprendere e ritenere le «sane parole» nella fede e nell'amore. Questa parola della grazia «può edificarci e darci l'eredità di tutti i santificati» (Atti 20:32).
Ritroveremo al capitolo seguente altre esortazioni che ci fanno vedere come Dio, man mano che la rovina si aggrava, si rivolga sempre più all'attività individuale. Ma gli ultimi versetti del nostro capitolo ci presenteranno prima una nuova forma di male che aveva invaso la Chiesa.
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Vers. 15-18. — «Tu sai questo: che tutti quelli che sono in Asia mi hanno abbandonato, tra i quali Figello ed Ermogene. Conceda il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché egli mi ha molte volte confortato e non si è vergognato della mia catena; anzi, quando è venuto a Roma, mi ha cercato con premura e mi ha trovato. Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso di lui in quel giorno. Tu sai pure molto bene quanti servizi mi abbia reso a Efeso».
L'apostolo, sapendo di essere incaricato della difesa dell'Evangelo, in questi versetti parla dell'abbandono subito da parte di tutti i suoi collaboratori dell'Asia(*), al momento in cui si temeva per la sua seconda prigionia. Almeno è così che capisco le parole «tutti quelli». Essi temevano di compromettersi schierandosi dalla sua parte. Timoteo lo sapeva; vedremo più avanti (3:1) che lo sviluppo del male nella Chiesa non si sarebbe fermato lì, ma ciò che accadeva in Asia dimostrava sempre più che «tutti cercano i loro propri interessi, e non quelli di Cristo Gesù» (Filippesi 2:21). Fra quelli che si erano allontanati dall'apostolo vi erano Figello ed Ermogene. Vedremo nel corso di questa epistola, quale dimensione avesse preso l'abbandono in cui l'apostolo era lasciato.
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(*) L'Asia era una provincia dell'Impero Romano che si trova nella Turchia attuale. Efeso ne era la capitale. Le sette chiese dell'Apocalisse ne facevano parte.
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Negli ultimi giorni della sua vita la testimonianza era giunta a questo punto! In questa assemblea di Efeso, dove la posizione celeste della Chiesa come corpo di Cristo era stata insegnata, compresa, realizzata in pratica, come in tutto il territorio dipendente da quella città, nel luogo stesso in cui l'apostolo prigioniero aveva inviato la sua epistola (agli Efesini), non si trovava più nessuno che simpatizzasse con lui. Uno solo aveva fatto eccezione, Onesiforo. Onesiforo aveva avuto la gioia di poterlo «molte volte confortare»; a Roma aveva dovuto cercarlo «con premura» per trovarlo, poiché non era più come ai tempi della prima prigionia quando non c'erano impedimenti. Quel che Dio stesso aveva tante volte fatto verso il suo fedele servitore (vedere 2 Corinzi 1), lo fa ora per mezzo di Onesiforo. Che immenso privilegio per lui! Onesiforo non aveva avuto vergogna di vedere l'apostolo trattato come un volgare malfattore; la sua catena era per lui come un titolo nobiliare. Né lui né l'apostolo ne avevano vergogna, poiché se essa faceva risaltare ciò che la testimonianza era divenuta, era nello stesso tempo la prova dell'onnipotenza di Dio che se ne serviva per spandere il suo Evangelo nel mondo intero.
Quando Onesiforo era venuto a Roma, non si era risparmiato per cercare l'apostolo, e l'aveva trovato. Forse altri avevano intrapreso questa ricerca senza raggiungere lo scopo, magari soddisfatti di mostrare agli occhi delle chiese o dell'apostolo che avevano compiuto il loro dovere. Non era facile trovare l'apostolo in quella grande città e nella fredda prigione dove era rinchiuso (vedere cap. 4:13), e i risultati vani di quella ricerca potevano essere altrettanti motivi per interrompere le indagini. Ma al di sopra dei motivi addotti vi era un Dio che vedeva e sapeva ciò che v'era nei cuori. Così l'apostolo implora la misericordia del Signore sulla famiglia d'Onesiforo (cap. 4:19) in quel tempo, e su Onesiforo stesso nel tempo futuro, nel giorno in cui saranno distribuite le ricompense; Onesiforo troverà allora «misericordia» da parte del sovrano Donatore, dal quale dipende ogni grazia, come è scritto: «Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta» (Matteo 5:7) e ancora: «Aspettando la misericordia del nostro Signore Gesù Cristo, a vita eterna» (Giuda 21). È a quel «giorno» che l'apostolo guarda al versetto 12. In quel giorno gli sarà reso ciò che egli ha affidato al Signore, e ciò che il Signore ha conservato per il suo caro servitore. Al capitolo 4:8 si comprende che si tratta della sua apparizione, del giorno in cui sarà considerato il soggetto della nostra responsabilità come testimoni di Cristo. In quel giorno sarà data la corona di giustizia (capitolo 4:
, la ricompensa decretata al giusto. Il nome delle diverse corone è ciò che caratterizza gli atti compiuti da quelli che le ricevono, e anche il carattere di Colui che le dà. Coloro che amano la sua apparizione sono quelli che agiscono e si comportano onorandolo, in vista del giorno in cui saranno posti nella piena luce della sua presenza e in cui tutto sarà manifestato senza che nulla rimanga nascosto. Allora, ciascuno dei suoi riceverà secondo quel che avrà fatto.
Timoteo stesso poteva rendere testimonianza ad Onesiforo dei servigi che egli aveva resi nell'assemblea d'Efeso ove Timoteo aveva lavorato così a lungo per mantenere l'ordine nella casa di Dio. Ma i servizi di Onesiforo non dovevano aspettare «quel giorno» per essere riconosciuti; lo erano già allora da ogni anima fedele e preoccupata del servizio e della testimonianza di Cristo. Oggi è la stessa cosa.
I versetti 16 e 18 ci mostrano l'aiuto e il soccorso che il Signore mette sulla via dei suoi servitori in una carriera irta di tanti pericoli e sofferenze. Non fu anche così del Servitore perfetto? Il Salmo dice: «Si disseta al torrente lungo il cammino» (110:7). Ah! Per bere, ha dovuto abbassare il capo! Non fu forse la stessa cosa del suo fedele servitore Paolo? Egli approfittava con gioia della consolazione e del refrigerio che riceveva in seno alla sua condizione umiliante, ma sapeva che un giorno avrebbe alzato il capo.