1a epistola Paolo a Timoteo cap 6
Henri Rossier
Capitolo 6
6.1 Doveri dei servi
Vers. 1-2: — «Tutti quelli che sono sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni onore, perché il nome di Dio e la dottrina non vengano bestemmiati. Quelli che hanno padroni credenti, non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggiore impegno, perché quelli che beneficiano del loro servizio sono fedeli e amati. Insegna queste cose e raccomandale».
Questi versetti contengono le istruzioni per i servi. L’apostolo, innanzitutto, tratta dei loro rapporti coi padroni increduli. Parlando a tutti i servi, si indirizza infatti soltanto a coloro che fanno parte della casa di Dio. Li riconosce in una posizione di dipendenza e di inferiorità rispetto agli uomini liberi; eppure, lungi dall’insorgere contro i loro padroni, anche se la loro condotta era tirannica, dovevano stimarli degni di ogni onore. Abbiamo visto più sopra (5:17) ciò che questa parola significa. Questa raccomandazione ha una grande portata. Non si tratta qui di obbligarli ad una soggezione forzata sotto un giogo subìto con impazienza; ma il servo cristiano riconosce al suo padrone, qualunque egli sia, ogni dignità, e gli rende moralmente ed effettivamente ogni servizio. Con quale scopo? Affinché il nome di Dio, di cui questi servi erano i portatori, e la dottrina, segno distintivo della «casa» della fede di cui facevano parte, non fossero biasimati da questi padroni increduli. Da quel momento, questi servi cristiani erano posti da Dio presso tali padroni per fare conoscere loro il Suo nome e la dottrina di Cristo, affidata, perché se ne renda testimonianza, alla casa di Dio quaggiù; dottrina sulla quale è fondata tutta la vita pratica del cristiano.
L’apostolo si rivolge in seguito ai servi che hanno dei padroni credenti. C’è il pericolo di essere portati a comportarsi verso di loro in modo differente che verso padroni increduli, ad esempio disprezzandoli. Un tale sentimento carnale andrebbe contro l’autorità stabilita da Dio e contraddirebbe tutti i principi della sana dottrina. Il servo, anziché elevarsi al livello del suo padrone cristiano o di abbassarlo al suo livello, deve essere felice di servirlo e amarlo, poiché un tale padrone è un fedele, quanto alla sua testimonianza verso il Signore, e un diletto, nel cuore di Dio e nel mezzo della famiglia cristiana.
Incombeva a Timoteo di dare questa esortazione, come pure l’insegnamento che essa comportava, perché l’una e l’altra facevano parte del dono di questo caro «figlio» in fede dell’apostolo Paolo (4:13).
6.2 Esortazioni e raccomandazioni generali
Vers. 3-5: — «Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è conforme alla pietà, è un orgoglioso e non sa nulla; ma si fissa su questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contese, maldicenza, cattivi sospetti, acerbe discussioni di persone corrotte di mente e prive della verità, le quali considerano la pietà come una fonte di guadagno».
Ecco, dunque, ciò che Timoteo doveva insegnare nell’esortare i servi. Colui che insegna in altro modo e non si attiene alle sane parole di Cristo, come pure alla sua dottrina, è orgoglioso e ignorante. La sana dottrina ha in vista la pietà, ed ha lo scopo di produrre delle relazioni di timore e di fiducia fra l’anima e Dio; tutto ciò che non ha questo carattere non può essere la dottrina di Gesù Cristo. Essa deve condurci sempre a coltivare le nostre relazioni con Dio, a gioirne e a valorizzare il suo carattere dinanzi al mondo. Se non si segue questo cammino, si è orgogliosi e si ignora lo scopo e i pensieri di Dio; si disputa sulle parole, segno di un triste declino nella casa di Dio, e il risultato non può essere né la pace, né l’amore, ma delle tristi querele, da cui nascono i cattivi sentimenti che riempiono il cuore di amarezza e di odio. È lo stato di spiriti completamente estranei alla verità e che cercano di trarre un profitto materiale da questa apparenza di pietà, che si danno a dispute religiose che non hanno niente a che vedere con la dottrina della pietà. L’odio, la scontentezza prodotti da queste dispute, la dimenticanza completa di relazioni con Dio, caratterizzano questi uomini.
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Vers. 6-8: — «La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno. Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti».
Quale contrasto tra l’uomo dei versetti 3 a 5 e il credente fedele dei versetti 6 a 8! Vi è, infatti, un grande guadagno in queste due cose: la pietà che ha la promessa della vita presente e della vita a venire (4:
, e l’animo contento del proprio stato, che non cerca guadagno nelle cose di quaggiù. Il cristiano d’animo contento sa benissimo che non porterà via nulla delle cose delle quali può essergli dato di godere per un momento; starà attento, dunque, a non mettervi il cuore. Questo cristiano è semplice. Avendo tutto il suo interesse nelle cose future che gli sono promesse, è ampiamente soddisfatto che Dio gli assicuri quaggiù il nutrimento e il vestire, e ne gioisce con azioni di grazie. Qualsiasi altra cosa per lui è piuttosto un ostacolo, perché sa che non può portare via nulla da questo mondo, dove non ha portato niente (Salmo 49:17; Ecclesiaste 5:15); se si attaccasse a qualche cosa, sarebbero dei legami che un giorno dovrebbe spezzare. Godendo delle cose eterne, nelle quali la pietà si compiace, e sapendo che il possesso delle cose visibili dividerebbe il suo cuore fra questi due centri, la terra e il cielo, la sua pietà preferisce le cose invisibili che durano sempre, perché delle prime nulla resterà e nulla si porterà nell’eternità.
Il guadagno reale della pietà non è quello a cui gli uomini ambiscono, perdendosi in vane dispute e discussioni religiose con le quali pensano di acquistarsi reputazione, guadagno e profitto; la vera pietà introduce sempre più l’anima del fedele nella gioia delle sue relazioni con Dio, e troverà il suo coronamento quando godrà di queste relazioni senza alcuna nube, nel cielo.
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Vers. 9-10: — «Invece quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori».
In generale, coloro che cercano di conquistare la ricchezza cadono in ogni genere di male. (Parlerà più tardi di coloro che sono ricchi secondo la dispensazione del governo di Dio al versetto 17). Questo desiderio e questa ricerca di guadagno gettano l’uomo nella rovina e nella perdizione. Possiamo parlare dettagliatamente di tutte le miserie che sono, per il mondo e il cristiano, la conseguenza dell’amore del denaro:
la tentazione e l’insidia nella quale cadono;
diversi desideri insensati e perniciosi, potendosi concedere la soddisfazione delle bramosie della loro carne;
la rovina materiale e morale, poi la perdizione eterna.
L’uomo ha creduto di soddisfarsi con le ricchezze ed ecco che è inghiottito, lontano da Dio, nell’abisso!
Alcuni di coloro che appartengono alla casa di Dio hanno, purtroppo, ambito questa parte. La conseguenza è stata per loro più ancora che la rovina materiale. Si sono trafitti di molti dolori, dolori incessanti, per la minaccia di perdere tutto, per le preoccupazioni continue. Ma ancor più, si sono sviati dalla fede. Questo stato non è il naufragio della fede (1:19), né l’apostasia della fede (4:1), o il rifiuto della prima fede (5:12); è uno stato meno grave dei precedenti, ma che getta l’anima del cristiano in una miseria senza nome. Essi si sono allontanati, sviati, staccati dalla fede per non ritrovarla mai più. Questa ha perduto per loro tutto il suo sapore, tutto il suo interesse (si tratta qui dell’insieme delle verità che la costituiscono), perché l’hanno sostituita con l’interesse per le cose più attraenti, anche se più vuote, di questo mondo.
La fede è la felicità, la salvaguardia, la delizia di coloro che sono rimasti fedeli e che sono i portatori della testimonianza di Dio quaggiù. Ma gli altri, quando saranno sul punto di lasciare questo mondo per comparire davanti a Dio, saranno trovati «vestiti»? Dove sarà la loro corona? Sarà data ad altri! Chi fra noi cristiani oserebbe augurare il benessere materiale in cambio della gioia, della sicurezza e della pace che danno il possesso delle cose celesti?
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Vers. 11-12: — «Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine. Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni».
L’apostolo ritorna ora al suo caro Timoteo. «Ma tu, uomo di Dio» — gli dice. Questo appellativo, così sovente usato nell’Antico Testamento, è sempre applicato ad uomini che hanno ricevuto una missione speciale da Dio. Tali furono i profeti Elia ed Eliseo e il vecchio profeta di 1 Re 13; tale fu anche Mosè, profeta legislatore, e Davide, il re profeta. Tutti ricevono, assieme al titolo di profeta, anche quello di uomo di Dio (cfr. 2 Pietro 1:21).
Nel Nuovo Testamento, questo titolo si ritrova solo due volte: qui e in 2 Timoteo 3:17, dove si applica prima a Timoteo, poi a colui che, nutrito della Parola, è incaricato, come Timoteo, di una missione speciale in questo mondo. Vediamo l’importanza della missione di quest’ultimo, perché essa gli era stata affidata con una solennità particolare, come dimostrano queste due epistole. Timoteo doveva vegliare sulla dottrina, insegnando come bisognava condursi nella chiesa del Dio vivente; ma egli stesso, in primo luogo, doveva condursi in modo da essere di modello agli altri. È così che, rappresentando Dio di fronte ai suoi fratelli, Timoteo doveva mostrare un carattere che lo facesse accreditare nel suo incarico. Doveva fuggire le cose di cui l’apostolo aveva parlato e procacciare:
La giustizia, quella giustizia pratica che rinnega il peccato e gli impedisce d’introdursi nelle nostre vie.
La pietà, i rapporti d’intimità con Dio, basati sul timore e la fiducia, rapporti impossibili senza la giustizia.
La fede, potenza spirituale per la quale ammettiamo come vera ogni parola uscita dalla bocca di Dio, e per mezzo della quale afferriamo le cose invisibili.
L’amore, il carattere stesso di Dio, conosciuto in Gesù Cristo e manifestato da coloro che sono partecipi della natura divina.
La costanza, che fa attraversare e sopportare tutte le difficoltà in vista dello scopo glorioso da raggiungere.
La mansuetudine, uno spirito benigno e pacifico che è di gran prezzo davanti a Dio (1 Pietro 3:4).
A tutte queste cose Paolo aggiunge due pressanti raccomandazioni. La prima è: «Combatti il buon combattimento della fede». Si tratta qui della lotta nello stadio (1 Corinzi 9:25), al quale si è chiamati per riportare il premio. È di questo «combattimento» che l’apostolo parlava al momento di terminare la sua carriera: «Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede» (2 Timoteo 4:7).
La seconda raccomandazione, che si collega alla prima, è: «Afferra la vita eterna». La vita eterna non è qui la vita che abbiamo possedendo Cristo, «il vero Dio e la vita eterna», quella vita divina che ci è comunicata per mezzo della fede in Lui e che ci introduce, già da quaggiù, nella comunione del Padre e del Figlio; essa ci è presentata, in questo passo, come la gioia finale e definitiva di tutte le benedizioni celesti, ricompensa del «buon combattimento della fede». Tuttavia, non è come in Filippesi 3:12 una meta non ancora raggiunta che il cristiano persegue e che cerca di afferrare. L’apostolo vuole che, durante lo svolgimento stesso del combattimento, questa meta sia afferrata come una grande ed assoluta realtà: il possesso e la gioia attuale, per fede, di tutte le cose che appartengono alla vita eterna. Che grazia quando la vita eterna è stata afferrata in questo modo!
È per tali benedizioni che Timoteo era stato chiamato. L’apostolo ci fa risalire all’inizio della carriera del suo caro figlio nella fede. Non appena questa prospettiva di una vita avente un solo scopo e un solo oggetto, quello che l’apostolo stesso s’era imposto (2 Timoteo 4:7), era stata posta dinanzi a lui, egli aveva reso testimonianza e «fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni». La sua confessione riguardava la vita eterna, afferrata come il tutto della chiamata cristiana. La chiamata faceva di Timoteo il campione di questa verità. I numerosi testimoni non sono gente del mondo, ma quelli che facevano parte dell’assemblea del Dio vivente, nella quale il suo ministero doveva svolgersi con l’insegnamento e le esortazioni.
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Vers. 13-16: — «Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose, e di Cristo Gesù che rese testimonianza davanti a Ponzio Pilato con quella bella confessione di fede, ti ordino di osservare questo comandamento da uomo senza macchia, irreprensibile, fino all’apparizione del nostro Signore Gesù Cristo, la quale sarà a suo tempo manifestata dal beato e unico sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen».
Questi versetti sono come un riassunto dello scopo di tutta l’epistola. «Io ti ordino», dice l’apostolo. Timoteo aveva ricevuto da lui un incarico e doveva attenervisi. Essendo stato stabilito per rappresentare l’apostolo durante la sua assenza, doveva dare ordini lui stesso (1:3,5,18; 4:11; 5:7; 6:17). Paolo ordinava a Timoteo molte cose e lo faceva nel modo più solenne, dinanzi al Dio Creatore che egli invocava come Colui che ha chiamato tutto all’esistenza quando non vi era ancora nulla, Colui che si è fatto conoscere a esseri infimi come noi per mezzo di un atto che ha mostrato tutto il suo compiacimento negli uomini. Non è forse un motivo supremo per obbedire? Ma ciò che l’apostolo ordinava lo faceva anche nel cospetto di Gesù Cristo che rese testimonianza «davanti a Ponzio Pilato». Poteva non essere importante per il governatore romano che Gesù fosse Re dei Giudei, e Pilato lo dimostra sia dicendo «Sono io forse Giudeo?», sia scrivendo «Gesù il nazareno, il Re dei Giudei» come motivo d’accusa sulla croce (Giovanni 18:35). Ma Pilato, amico di Cesare, non è indifferente al fatto che oltre all’imperatore vi sia un altro uomo che abbia delle pretese di regnare. Rigettato dai Giudei, come Re, il Signore davanti a Pilato attribuisce al suo regno tutt’altra dimensione quando dice: «Il mio regno non è di questo mondo», perché ha per dominio esclusivo una sfera interamente celeste. E aggiunge: «Ora il mio regno non è di qui». Avrebbe rivendicato più tardi, quaggiù, una sovranità più vasta di quella di Re dei Giudei, ed è ciò che inquieta Pilato e gli fa dire: «Ma dunque, sei tu Re?». A questa domanda Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono Re». Rende così testimonianza alla verità, mantenendo ad ogni prezzo il carattere della sua sovranità; e aggiunge: «Io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità». Infatti, dichiarare la sua sovranità per nascita (Matteo 2:1-2) dinanzi a Pilato, amico di Cesare, una sovranità che sorpassava di molto i limiti giudaici, significava firmare egli stesso la propria condanna a morte. Questa confessione è la «bella confessione davanti a Ponzio Pilato» del nostro passo.
Questa bella confessione, il Signore doveva farla per essere fedele alla verità di cui era venuto a rendere testimonianza in questo mondo. La sua sovranità vi partecipava, e se avesse esitato un istante davanti alla necessità di fare questa confessione, non avrebbe potuto aggiungere: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». La confessione che egli era Re si legava dunque intimamente al fatto che egli era venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità.
La bella confessione di Timoteo davanti a molti testimoni cristiani non metteva la sua vita in pericolo. Non era nemmeno la testimonianza alla verità, era la bella confessione delle immense benedizioni della fedeltà, benedizioni afferrate da Timoteo nella testimonianza cristiana alla quale dedicava la sua carriera. La bella confessione di Cristo davanti a Ponzio Pilato era la testimonianza alla verità (di cui la sovranità attuale e futura di Cristo, ben più importante della sovranità giudaica, faceva parte), perché «la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo». Nulla poteva distogliere il Signore dalla confessione della verità tutt’intera, neppure la morte.
Ma quale immenso privilegio per Timoteo essere associato al Signore Gesù confessando di avere afferrato una meta che nessuno poteva strappargli, come Gesù aveva confessato interamente la verità che la morte stessa non poteva fargli abbandonare!
Al versetto 14, l’apostolo ordina a Timoteo «di osservare questo comandamento», vale a dire ciò che gli aveva ordinato: «fuggi» «ricerca» «combatti» «afferra». Era stato chiamato a realizzare queste cose davanti a testimoni fedeli e davanti al mondo, e doveva serbarle «da uomo senza macchia e irreprensibile». L’apostolo aggiunge al versetto 20: «O Timoteo, custodisci il deposito». È il riassunto del contenuto di tutta l’epistola. L’apostolo aveva già detto, a proposito della sua condotta riguardo agli anziani: «Ti scongiuro... di osservare queste cose senza pregiudizi» (5:21).
Il comandamento Timoteo doveva osservarlo «da uomo senza macchia», senza alcuna falsificazione, e da «irreprensibile», senza che nessuno avesse occasione di riprenderlo o di accusarlo, e innanzi tutto per ricevere l’approvazione del nostro Signore Gesù Cristo fino alla sua «apparizione». È sempre parlato dell’apparizione e non della venuta del Signore quando si tratta della responsabilità del servizio. Ed è per questo che si può parlare «d’amare la Sua apparizione» anche se è sempre accompagnata dalla vendetta sul mondo (2 Tessalonicesi 1:
, La ragione di questo è che se la venuta del Signore è il «giorno di grazia», la sua apparizione è il «giorno delle corone», delle ricompense per i servitori di Cristo.
Quest’apparizione sarà mostrata al tempo stabilito dal beato e unico Sovrano, già chiamato il «beato Dio» (1:11). Allora, il solo Sovrano, Re dei re e Signore dei signori, manifesterà questa gloria. Di chi parla l’apostolo? Di Dio, certamente, ma è impossibile separare Dio da Cristo; Dio è tutto questo quando «manifesta» l’apparizione di Cristo; Cristo sarà tutto questo, quando apparirà come Re dei re e Signore dei signori. È la seconda volta in questa epistola (cfr. 1:17) che la lode suprema s’innalza a Dio nei luoghi eterni. Nel primo caso, per la venuta in questo mondo di Cristo uomo come Salvatore; nel secondo, per la sua apparizione come Signore e uomo vittorioso. Qui, sale a Colui che «solo possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha veduto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen». È dunque proprio del Dio eterno, inaccessibile, invisibile, che qui è parlato, ma noi lo conosciamo nel suo figlio Gesù Cristo: Egli è «il vero Dio e la vita eterna».
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Vers. 17-19: — «Ai ricchi in questo mondo ordina di non essere d’animo orgoglioso, di non riporre la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo; di far del bene, d’arricchirsi di opere buone, di essere generosi nel donare, pronti a dare, così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire, per ottenere la vera vita».
Resta ancora un ordine da aggiungere riguardo a coloro ai quali, in mezzo ai suoi, Dio ha elargito dei beni di questo mondo. Si tratta della loro situazione «in questo mondo», situazione che non ha niente a che fare, o piuttosto che è in contrasto, con quella del mondo futuro (vers. 13-16).
Questa non deve esaltarli ai loro propri occhi, perché l’orgoglio per la ricchezza che si ha è una delle tendenze più frequenti fra gli uomini. Bisogna che i cristiani non si lascino trascinare a basarsi sull’incertezza delle ricchezze che possono svanire in un momento; essi devono confidare in Colui che li ha riccamente favoriti dando loro di godere di queste cose. Impieghino, dunque, le loro ricchezze per fare del bene, in buone opere, in prontezza nel dare con liberalità. Tale è lo scopo della ricchezza che è loro dispensata; essa deve sviluppare, nella testimonianza di chi le possiede, delle virtù che non potrebbero mostrarsi se non dove Dio dà dei beni terrestri.
«Così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire». Si tratta di abbandonare le cose visibili anche se sono il frutto della bontà di Dio, date ai suoi affinché acquistino «un tesoro ben fondato per l’avvenire» ed afferrino «la vera vita». Tale doveva essere il comportamento dei ricchi. Timoteo, che non possedeva nessuno dei loro vantaggi, si offriva loro ad esempio avendo egli stesso «afferrata la vita eterna».
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Vers. 20-21: — «O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede. La grazia sia con voi».
Timoteo è esortato a custodire il deposito che gli è stato affidato. D’altra parte, vediamo che Paolo confida ciò che ha al Signore, il quale ha la potenza di custodirlo. In Lui è la vita, la potenza per sostenerla e per custodire nel cielo l’eredità di gloria che ci è destinata. Paolo sapeva in chi aveva creduto. Egli non aveva messo la sua fiducia nell’opera, ma in Cristo, che conosceva bene (2 Timoteo 1:12). Qui, è Timoteo che custodisce il deposito che il Signore gli ha affidato. Questo deposito è l’amministrazione della casa di Dio per mezzo della Parola, della dottrina, dell’esempio che egli stesso doveva dare. Il suo compito non era di discutere; doveva schivare le profane vacuità di parole e le opposizioni alla dottrina di Cristo dei ciarlatani che pretendevano di averne conoscenza. E già qualcuno, che professava di possederla, si era allontanato dalla dottrina cristiana.
L’ultima parola dell’apostolo a Timoteo, come a tutti i credenti, è: «Grazia», favore divino per il suo figlio in fede; ed è stata anche quella la sua prima parola (1:2)!