Giosue Capitolo 15
Henri Rossier
Capitoli 20 e 21: Le città di rifugio
In rapporto con questi due capitoli, desidero che leggiate Ebrei 6:18-20, passo che fa allusione evidente alle città di rifugio, quali noi le troviamo in Esodo 21:13; Numeri 35; Deuteronomio 19 e Giosuè 20 e 21.
I tipi dell’Antico Testamento ci presentano sovente, nella loro applicazione al cristiano, dei contrasti più che dei paralleli. Così è, come vedremo, delle città di rifugio. Sarebbe un parallelo ben povero e imperfetto se le si volessero considerare come figura della croce di Cristo. L’applicazione più immediata di quel tipo è piuttosto storica e profetica. L’uccisore involontario è una figura d’Israele, uccisore di Cristo per ignoranza. È in quel senso che il Signore, Gesù disse sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Essi non hanno conosciuto il giorno della loro visitazione. Lo stesso fu di Paolo: «Misericordia mi è stata fatta, perché io lo feci ignorantemente, nella mia incredulità».
Ma in un altro senso i Giudei, i capi e il popolo, erano uccisori volontari, rigettando deliberatamente, e con conoscenza di causa, Dio e il suo Cristo. «Costui è l’erede; venite, uccidiamolo e facciam nostra la sua eredità» (Matteo 21:38); «Non vogliamo che costui regni su noi» (Luca 19:14). È detto che l’uccisore volontario doveva essere messo a morte. Quel giudizio ha avuto un compimento parziale nella distruzione di Gerusalemme: il re irritato, «si adirò, e mandò le sue truppe a sterminare quegli omicidi e ad ardere la loro città» (Matteo 22:7). Ma il castigo dell’uccisore volontario, ingiustamente rifugiato nelle città di rifugio (vedi Deuteronomio 19:11-12) deve, in realtà, ancora venire. I Giudei, dopo il rigettamento del Messia, sono stati custoditi, per mezzo delle cure provvidenziali di Dio, lontani dalla loro eredità, e, per così dire, sotto gli occhi dei servitori di Dio i quali, come i Leviti d’allora, non avendo alcuna eredità sulla terra e comprendendo la loro posizione, servono loro di rifugio e li riconoscono come sotto la custodia di Dio. Ma gli uccisori volontari saranno tratti di là e dati in mano al vindice del sangue. Legati all’anticristo, essi diverrano oggetti del giudizio divino.
Quanto agli uccisori involontari, essi potranno entrare nella loro eredità al tempo del mutamento di sacerdozio (Giosuè 20:6; Numeri 35:28), vale a dire, allorché il sacerdozio di Cristo secondo il tipo di Aaronne avrà dato luogo al sacerdozio eterno, secondo l’ordine di Melchisedec. Questo significato delle città di rifugio, di cui non parlo che di passaggio, sarebbe interessante seguirlo nei suoi dettagli. Ma ritorno al contrasto che quel tipo presenta quando lo si paragona colla posizione cristiana in Ebrei 6.
L’Israelita, uccisore involontario, tipo del popolo nel suo stato attuale, fuggiva in una città di rifugio, con l’incerta speranza di evitare il vendicatore del sangue, e di potere un giorno rientrare nella sua eredità. Egli era tenuto lontano dalla sua eredità fino alla morte del sommo sacerdote, tipo, come abbiamo detto, del sacerdozio di Cristo secondo l’ordine di Aaronne. Ma anche nelle città di rifugio la sua sicurezza e la sua reintegrazione erano ancora sottoposte a ogni sorta di circostanze che rendevano la sua posizione molto precaria. Essa dipendeva:
1) dal vendicatore del sangue. Se l’omicida si allontanava un istante dalla città di rifugio, il vendicatore, in agguato, aveva diritto di ucciderlo (Numeri 35:26-28);
2) dagli anziani della città (Giosuè 20:4);
3) dal giudizio dell’assemblea (v. 6; Numeri 35:12,24-25);
4) dal sommo sacerdote (v. 6), potendo l’omicida morire prima di lui.
È da notare quanto poche fossero le risorse che la legge presentava ai meno colpevoli in Israele.
Vediamo ora le risorse della grazia in Ebrei 6:18-20. Il cristiano che usciva dal giudaesimo sfuggiva anche al giudizio che era pronto a cadere sul popolo, ma non con una speranza incerta; egli fuggiva per afferrare la speranza propostagli.
Quella speranza noi l’afferriamo, l’abbiamo, essa è l’eredità attuale delle nostre anime. Non è incerta né vaga; è, per così dire, personificata in un Cristo celeste (il grande soggetto dell’epistola agli Ebrei); un Cristo in contrasto con tutto ciò che la terra poteva offrire di meglio; un Cristo uomo nella gloria, che è il compimento di tutti i consigli e di tutte le promesse di Dio.
Quel Cristo-speranza è un’ancora sicura e ferma dell’anima; la nostra speranza è solidamente attaccata alla rocca immutabile. Niente d’incerto; colui che l’ha afferrata non può più essere trascinato da dottrine diverse. Ma quella speranza fa di più; essa ci introduce attualmente nella presenza di Dio nel santuario, dentro la cortina dove troviamo Gesù che vi è entrato come precursore per noi. Già noi vi entriamo in pace, aspettando di ricevere l’eredità assicurata, che fra poco possederemo.
Per entrarvi, non abbiamo bisogno, come il povero omicida involontario, che il sacerdozio aaronnico di Cristo abbia preso fine, poiché siamo legati in modo immutabile a Colui che è «divenuto sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec» e che lo è in virtù dell’opera che ci ha acquistata una salvezza eterna.