Habacuc 1: 13-17
Henri Rossier
Quel che il profeta aveva imparato aveva risvegliato una calda simpatia per il suo popolo. Al principio egli era solo occupato dello spaventevole stato nel quale questo era sprofondato; ora comprende l'interesse che Dio ha per Israele, e nello stesso tempo è stato istruito sui principi del governo di Dio riguardo al suo popolo.
Ma, godendo della comunione col suo Dio, come abbiamo visto al v. 12, egli ardisce porre un'altra domanda, un secondo «perché»:
«Perché guardi i perfidi, e taci quando il malvagio divora l'uomo che è più giusto di lui?» (v. 13).
Se tu non puoi contemplare l'oppressione, dice Habacuc, tuttavia tu contempli senza commuoverti colui che agisce perfidamente; ecco che, lungi dall'intervenire, sembri essere indifferente al male che colpisce il tuo popolo il quale, per colpevole che sia, è più giusto dei suoi nemici. In effetti, vi erano in Israele, in mezzo a molto male, certe «cose buone» che non v'erano nelle nazioni vicine. V'erano cose, come quelle sotto il regno di Giosia, di cui Habacuc era un esempio vivente. Da questo punto di vista, Israele era più giusto dei suoi avversari. Il profeta desidera sciogliere anche questo enigma. Se Dio riconosce qualche bene in coloro che erano oppressi dai malvagi, perché favorisce il malvagio nelle sue imprese?
Tuttavia, prima di ricevere la risposta divina, il profeta comprende una cosa: «Tu rendi anche gli uomini come i pesci del mare e come i rettili, che non hanno signore» (v. 14). Se Dio ha affidato un'azione di governo agli uomini, egli ha il diritto di privarli di questo, come ne priva i pesci del mare e le bestie innumerevoli che abitano la terra per darle in preda a colui nelle mani del quale egli pone il potere. Stava per essere così delle nazioni conquistate da Babilonia; e la stessa sorte doveva attendere Israele, organizzato un tempo sotto il governo di Dio ma che, avendo abbandonato l'Eterno, stava per essere lasciato senza re, senza principe e senza risorsa contro il nemico (Isaia 63: 19; Osea 3: 4).
«Il Caldeo li trae tutti su con l'amo, li piglia nella sua rete, li raccoglie nel suo giacchio; perciò si rallegra ed esulta. Per questo fa sacrifici alla sua rete, e offre profumi al suo giacchio; perché per essi la sua parte è grassa, e il suo cibo è succulento» (v. 15-16).
Il Profeta continua a comprendere solo una parte di ciò che sta per capitare. Egli è in comunione col pensiero di Dio espresso al versetto 11: «Questa lor forza è il loro Dio». Vede che l'avversario s'è servito della potenza che gli è stata affidata per fare della sua rete e del suo giacchio un idolo, e che invoca gli strumenti delle sue vittorie. Possiamo domandarci se, sotto un'altra forma, le cose sono diverse oggi. Ma se è cosi, «dev'egli per questo seguitar a vuotar la sua rete, e massacrar del continuo le nazioni senza pietà?». Dio sopporterà questo uso profano e idolatra della forza, e l'oppressione delle nazioni durerà per sempre?
Le due grandi domande poste dal profeta sono dunque quelle del governo di Dio verso il suo popolo e del suo governo verso il mondo. Nel Nuovo Testamento, la prima e la seconda epistola di Pietro rispondono.
Queste domande del profeta denotano molta intimità con Dio, e nello stesso tempo costituiscono una confessione di ignoranza e un gran desiderio di essere ammaestrato da Lui. Habacuc ne ha già la sensazione, ma ben presto realizzerà pienamente che per conoscere le vie di Dio è sufficiente conoscere Lui in persona. Senza questa conoscenza della sua persona, quello che succede nel mondo resterà sempre per noi allo stato di enigma indecifrabile.