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 Faccia parte d’ogni suo bene… Galat

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girolamo
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060715
MessaggioFaccia parte d’ogni suo bene… Galat

Faccia parte d’ogni suo bene… Galati 6:7
 
Faccia parte d’ogni suo bene… Galat Presen10
di Roberto Bracco

Nella chiesa cristiana c’è colui che ammaestra e colui che è ammaestrato, cioè il predicatore ed il fedele. Colui che ammaestra è il servo di Dio, il conduttore del popolo, il ministro cristiano, mentre colui che è ammaestrato è un membro della comunità: una pecora del gregge spirituale.

Colui che ammaestra e colui che è ammaestrato appartengono a Dio; sono ambedue figliuoli di Dio e perciò sono fra loro “fratelli nel Signore”, però i loro doveri verso Dio sono diversi ed anche i doveri che hanno l’uno verso l’altro non sono uguali.

Il predicatore ha il dovere di esercitare il ministero e quindi ha il dovere di applicarsi costantemente “alla parola e alla preghiera” (Fatti 6:4), ed il fedele ha il dovere di ascoltare la parola e di sottomettersi all’autorità del ministro. Il predicatore ha il dovere di curare il ministero e di assolverlo nella guida di Dio, ed il fedele ha il dovere di onorare il ministero e di riconoscerlo e stimarlo in Dio. Il predicatore ha il dovere di porgere al fedele tutto il bene spirituale che è contenuto nell’ammaestramento e nell’esortazione, ed il fedele ha il dovere di porgere al predicatore tutta la propria stima e tutta “l’assistenza materiale” che è necessaria al sostentamento della sua vita.

I doveri sono diversi, ma questi doveri si compiono in Dio e, nella fedeltà ad essi, rendono ugualmente graditi davanti a Dio: è gradito il predicatore che inistancabilmente ammaestra il fedele, ed è gradito il fedele che amorevolmente si prende cura del predicatore e lo sovviene nelle sue necessità.

L’uno ammaestra, cioè porge i beni spirituali, e l’altro fa parte d’ogni suo bene e cioè offre le sue sostanze materiali (Rom. 15:27; 1 Cor. 9:11).

Questo insegnamento cristiano è chiaramente espresso nella Scrittura e ci viene presentato, non come un consiglio che possa essere accettato o possa essere rifiutato, ma come un comandamento di Dio: come colui che ha ricevuto il ministero “ha l’obbligo” di ammaestrare il fedele, così il fedele che gode i frutti del ministero “ha l’obbligo” di far parte dei suoi beni a colui che lo ammaestra.

Gesù stesso ha continuamente ricordato questo comandamento attraverso l’esempio della sua vita; egli ha accettato sovvenzioni dalle donne che lo seguivano, egli ha accettato l’invito di coloro che lo volevano ospite nella loro casa (Luca 8:3; Luca 7:36). Soltanto eccezionalmente il Maestro divino ha moltiplicati pani e pesci e ha fatto pescare un pesce con una moneta in bocca; normalmente invece ha accettato mense imbandite, case per riposare, cavalcatura per viaggiare… e nella morte ha anche accettato una sepoltura preparata per altri. Nel mandare i suoi servitori per le contrade della Palestina prima e per il mondo dopo, ha chiaramente detto che dovevano attenersi al piano di Dio e perciò come servitori di Dio si dovevano occupare soltanto del ministero ricevuto ed aspettare che altri si fossero presi cura di loro per le necessità materiali della loro vita (Luca 22:35; Matteo 10:10; Luca 10:7).

L’esame delle Scritture ci dimostra che i servitori di Dio si attennero fedelmente a questo “comandamento” perché lo interpretarono non come un consiglio che poteva essere accettato o rifiutato, ma come un ordine che non andava discusso.

Le chiese cristiane di questi giorni invece cercano di nascondere questa verità scritturale e quando, qualche rara volta, essa appare in mezzo ad altre verità, cercano di discuterla per poterla rifiutare o modificare. Noi tutti purtroppo conosciamo gli argomenti di queste discussioni, mosse soltanto dall’avarizia e dalla carnalità.

Di fronte al comandamento di Dio ogni discussione cade, deve cadere, perché noi non abbiamo nessun diritto di sollevare obiezioni alla legge dell’Eterno; dobbiamo ubbidire e soltanto ubbidire perché questo è il nostro obbligo di credenti.

Se il ministro abbandona il sentiero della consacrazione per divenire mercenario o se il ministro volta le spalle alla spiritualità per divenire avaro, deve rispondere a Dio di queste sue infedeltà, ma noi “non abbiamo nessun diritto” di rifiutare quello che siamo “obbligati” a dare, soltanto perché esistono queste probabilità e queste tentazioni sul sentiero cristiano di “colui che ammaestra” cioè del servo del Signore.

Quando noi accettiamo questa verità come “comandamento di Dio” ci accorgiamo che tutte le nostre scuse perdono valore e tutte le nostre considerazioni diventano ridicole. Un esempio può aiutare a comprendere questa verità.

Supponiamo di avere un servitore alle nostre dipendenze e supponiamo di aver stabilito e contrattato con lui lo stipendio mensile che intendiamo corrispondergli; quando termina il mese di lavoro noi gli paghiamo quello che gli è dovuto senza preoccuparci di sapere come egli spenderà il denaro e senza preoccuparci di sapere se quel denaro lo renderà troppo ricco. Noi pensiamo soltanto che “abbiamo un dovere” quello di corrispondere quanto dovuto; l’uso del denaro diventa poi un diritto ed un dovere di colui che l’ha ricevuto.

Questo esempio serve soltanto ad imprimere più profondamente il concetto “del dovere” perché se “fare parte di ogni bene a colui che ammaestra” è un comandamento, e noi crediamo fermamente che sia un comandamento, noi dobbiamo eseguire quest’ordine divino senza discutere. D’altronde un servitore di Dio sincero ed onesto non diventerà mai un professionista, un mercenario, ed anche se qualche volta si troverà nell’abbondanza, egli saprà mantenersi fedele in quella condizione come nella condizione opposta (1 Pietro 5:2; Fil. 4:11-12).

Non dobbiamo e non possiamo infatti negare anche ad un servo dell’Eterno il diritto di trovarsi qualche volta nell’abbondanza onde possa lodare Iddio per essa e tanto meno possiamo negare ad un servo di Dio il diritto di avere abbastanza per poter operare, come gli altri, il bene; per poter dare, come tutti, il proprio contributo economico alla gloria del Signore.

Non dobbiamo pensare a lui come ad uno stipendiato perché con lui non abbiamo un impegno contrattuale, ma non dobbiamo neanche dimenticarci di lui, mentre la Parola e lo Spirito ci indicano il dovere che dobbiamo adempiere e ci chiariscono “anche la misura” del nostro obbligo verso il ministro che ci ammaestra.

Questa verità dimenticata non rappresenta soltanto un comandamento trasgredito, ma anche una benedizione respinta. Dare beni materiali a coloro, che nel nome del Signore, ci largiscono beni spirituali, rappresenta infatti una meravigliosa benedizione per l’anima del credente; nel dare c’è gioia, nel dare c’è approvazione da Dio, nel dare c’è la retribuzione di Dio.

Il credente che da, che offre al ministro, che assiste il ministro non perde quello che largisce perché lo ritrova moltiplicato nella propria vita, spiritualmente e materialmente. Iddio è fedele ed Egli onora sempre la Sua parola e benedice tutti coloro che rispettano i Suoi comandamenti.

Quando infatti l’apostolo Paolo scrisse la sua lettera ai Filippesi, non soltanto non trascurò di ringraziarli per la generosa offerta che gli avevano mandato e non soltanto non trascurò di esprimere tutta la gioia che aveva provata nel ricevere il loro aiuto, ma sentì il dovere cristiano di precisare che la sua gioia non veniva “perché cercava e desiderava presenti e regali, ma perché desiderava che i fedeli portassero molto frutto per il loro bene” (Filippesi 4:17).

L’apostolo sapeva bene che nel sottomettersi al “comandamento” di Dio che ordina di aiutare i servitori cristiani, c’è una benedizione gloriosa per il fedele e per la chiesa.

Anche nella lettera ai Corinti egli si ferma lungamente a parlare di questa verità ed è obbligato a ricordare ai fedeli di quella chiesa che se durante il tempo che ha svolto un ministerio nel mezzo di loro, non si è fatto sovvenire dai fedeli e dalla chiesa è stato soltanto “per togliere occasione a coloro che cercavano occasione” (2 Cor. 11:12).

Chi ha “perduto” in questa circostanza non è stato però Paolo, ma sono stati gli stessi credenti di Corinto ed infatti l’apostolo è costretto a dichiarare chiaramente che in “ogni cosa la chiesa di Corinto è stata come le altre chiese, ma in una cosa è stata inferiore alle altre chiese e cioè è stata inferiore nel ministerio del dare perché non ha sovvenzionato colui che porgeva l’ammaestramento nel nome del Signore…” (2 Cor. 12:13).

Quindi “non fare parte dei propri beni” a colui che ammaestra rappresenta una perdita, un regresso, per essere più chiari uno scendere in basso nella vita spirituale. Per progredire, per essere benedetti dobbiamo accettare questo comandamento di Dio senza discutere e dobbiamo metterlo in pratica.

L’ubbidienza a questa particolare verità cristiana ci farà compiere un’altra meravigliosa scoperta; la parola di Dio ed il servo di Dio acquisteranno più valore nel nostro cuore. Noi non “pagheremo” mai la parola e non “compenseremo” mai il ministero; infatti questi sono doni di Dio agli uomini; ma quando daremo in maniera pratica l’espressione del nostro affetto, ci sentiremo realmente interessati e maggiormente avvinti, in conseguenza della nostra totale partecipazione. No, non penseremo di aver pagato quello che ci è stato dato perché quello che ci è stato dato, ci è stato dato in dono nel nome del Signore, ma sentiremo almeno di aver dato anche noi un contributo reale all’opera del ministero e di aver espresso in un modo chiaro il nostro consenso cristiano.

E mentre la parola ed il ministro acquisteranno maggior valore per noi, anche noi credenti acquisteremo maggior valore per il ministro. E’ necessario comprendere bene questa importantissima dichiarazione: i fedeli sono sempre di grande valore davanti alla coscienza del servo di Dio ed il loro valore non cambia in ragione di quello che danno, che offrono, che largiscono: tutti sono ugualmente pecore del gregge del Signore, ma è anche logico che il predicatore si senta più aperto verso coloro che l’incoraggiano.

Quando un servitore di Dio predica la parola e ha davanti a se fedeli distratti o sonnacchiosi, si sente scoraggiato nel suo ministero, quando invece ha una congregazione attenta ed entusiasta che lo ascolta e si riscalda di fronte alla parola che viene predicata, allora si sente incoraggiato e quei fedeli diventano preziosi al suo cuore. Ebbene, quando il servo di Dio vive in mezzo ad una chiesa che oltre a mostrare attenzione durante la predica, oltre a riscaldarsi ed entusiasmarsi nelle riunioni di culto, mostra anche un interesse vero ed affettuoso per “colui che ammaestra nella parola”; quando il servo di Dio, ripetiamo, vede intorno a se questa sollecitudine spirituale e cristiana, si sente incoraggiato per prodigarsi a favore di un popolo prezioso agli occhi di Dio ed anche al suo cuore di servo del Signore.

L’ubbidienza a questa verità conduce quindi ad un profondo rapporto di comunione e di amore fra il popolo ed il ministro e fra il ministro ed il popolo, ma non dimentichiamoci che conduce anche a valorizzare fino ai limiti più elevati l’opera del ministero. Oggi, infatti ci sono molti servi dell’Eterno, che sono trascurati dal popolo e perciò sono obbligati ad abbandonare il servizio di Dio per occuparsi di un lavoro profano, che permetta loro di provvedere ai bisogni della famiglia. E’ la stessa tragica situazione dei giorni di Neemia, giorni di prova e di crisi spirituale per il popolo di Dio. (Neemia 13:10).

Un predicatore occupato completamente in un lavoro profano, non ha il tempo necessario per investigare la Scrittura, per pregare e per darsi totalmente al ministero; stanco, turbato, preoccupato, distratto, egli potrà dare al servizio spirituale le briciole di energia e di serenità che gli rimangono.

Questa situazione si riflette sulla chiesa perché la chiesa riceve esattamente quello che il ministro porge, quello che il ministro può dare.

Quando invece il servo di Dio viene posto in condizione da offrire tutto il tempo, tutte le energie, tutta la serenità al ministero, la chiesa riceve il beneficio di un servizio pieno, efficace; non saranno più le briciole, i pensieri stentati e turbati spesso dalle preoccupazioni, ma saranno le perle delle dispense divine che il ministro avrà potuto raccogliere nelle ore di studio spirituale e di comunione con Dio.

E’ necessario riportare in luce il comandamento divino, la verità trascurata e sottoporre ad esso la nostra vita perché in quest’atto di sottomissione fedele è racchiusa la nostra benedizione.

Dobbiamo dare, dare con generosità, dare con convinzione. Non deve essere, naturalmente, l’elemosina del prodigo al mendicante o l’offerta dell’orgoglioso al servo, ma deve essere il contributo affettuoso del membro della famiglia di Dio che è consapevole dei propri diritti e dei propri doveri davanti a Dio.

L’offerta deve essere, per quanto è possibile, anonima; la sinistra deve ignorare quel che fa la destra perché l’offerta è fatta a Dio e deve giungere al servitore da parte di Dio.

In questo modo nessuno si sentirà umiliato dalla povertà della propria offerta e nessuno si sentirà inorgoglito dall’abbondanza del proprio dono. Anche il ministro si sentirà libero e sereno nella medesima maniera verso tutti.

L’offerta deve essere in proporzione “dei nostri beni” perché deve essere una “parte dei nostri beni”. Iddio non ci chiede mai quello che “non” possiamo dare e quindi stabilisce che ognuno dia in proporzione delle proprie sostanze, ma vuole che “ognuno dia” perché “ognuno riceve”. Forse non è opportuno dire quanto bisognerebbe dare perché è soprattutto importante incominciare a dare; certamente coloro che incominceranno a godere le benedizioni del dare si sentiranno sempre più incoraggiati alla fedeltà, dai risultati della loro ubbidienza e diventeranno così aperti e sensibili da discernere in modo preciso la guida dello Spirito Santo anche in questo particolare aspetto della volontà di Dio.

Concludiamo col ripetere semplicemente le parole: “Colui che è ammaestrato nella parola faccia parte di ogni suo bene a colui che lo ammaestra”.
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