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 5. Quinta lettera — Osservazioni di

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girolamo
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5. Quinta lettera — Osservazioni di Empty
080813
Messaggio5. Quinta lettera — Osservazioni di

5. Quinta lettera — Osservazioni diverse sulla dipendenza reciproca dei santi nelle riunioni d’edificazione scambievole e su altri soggetti


5. Quinta lettera — Osservazioni di Presen10


Diletti fratelli,

Le mie osservazioni in questa lettera hanno lo scopo di rilevare diversi punti che non potevano facilmente entrare nei soggetti trattati precedentemente.

E innanzi tutto, mi sia permesso di rammentarvi che tutto quel che si fa in una riunione d’edificazione reciproca deve essere il frutto della comunione. Vale a dire che, se intendo leggere un capitolo della Parola, non bisogna che io debba sfogliare a lungo la mia Bibbia per cercarvi un capitolo che convenga leggere; ma, ammettendo ch’io conosca più o meno questa Parola, bisogna che lo Spirito di Dio mi abbia messo a cuore la parte che ne debbo leggere. Così, se un inno dev’essere cantato, non sarà perché avrò così cercato nella mia raccolta un inno che mi piaccia; no, ma bisogna che, secondo la misura di conoscenza che ho del libro dei cantici, lo Spirito di Dio, mi abbia ricordato un inno e mi abbia diretto ad indicarlo. L’idea d’una mezza dozzina di fratelli che sfoglia raccolte di cantici e Bibbie per trovare dei capitoli e degli inni adatti, è del tutto in opposizione col vero carattere d’una riunione d’edificazione reciproca nella dipendenza dello Spirito Santo. È vero che, a causa d’una conoscenza imperfetta della mia Bibbia, posso aver bisogno di cercare un capitolo che lo Spirito mi ha messo a cuore di leggere; e così quando si tratta d’un inno; ma è questo il solo scopo che si deve avere sfogliando sia l’uno che l’altro di questi libri, quando si è radunati sul principio della dipendenza dallo Spirito Santo per edificarsi scambievolmente.

In secondo luogo, se ciò che abbiam detto or ora fosse ben compreso, accadrebbe, come naturale conseguenza, che vedendo un fratello aprire la Bibbia o il libro di cantici, si saprebbe che lo fa col pensiero di leggere una parte della Parola, o d’indicare un inno. Il passo: «Dunque, fratelli miei, quando vi riunite per mangiare, aspettatevi gli uni gli altri» (1 Corinzi 11:33), impedirebbe allora ogni altro fratello d’aver il pensiero d’agire nell’adunanza, finché colui che ha così manifestato il suo desiderio di leggere, ecc., abbia messo in esecuzione la cosa o vi abbia rinunciato. Questo mi conduce al soggetto della reciproca dipendenza, su cui faremo bene di meditare un momento.

In questo capitolo (1 Corinzi 11), la questione che riguardava i Corinzi, non era il ministerio, bensì il modo di prendere la cena del Signore. La questione del ministerio si presenta nel capitolo 14; ma la radice morale del disordine era la stessa nei due casi. I Corinzi non discernevano il corpo, e così ognuno di loro era occupato della sua propria persona. «Poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena» (1 Corinzi 11:21). Ne risultava ciò che segue: «e mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco». Il principio dell’io produceva là dei frutti talmente visibili e mostruosi che urtavano persino i sentimenti naturali, ma se, andando alle riunioni e durante le riunioni, io non facessi che pensare al capitolo che leggerò, all’inno che indicherò, in una parola alla parte che prenderò al culto, l’io sarebbe nelle cose spirituali, il perno su cui girano i miei pensieri e le mie sollecitudini, altrettanto che se portassi, come i Corinzi nelle cose naturali, una cena e la mangiassi, mentre il mio povero fratello che non ha potuto procurarsi cibo, se ne va senza aver cenato. Noi ci raduniamo nell’unità del solo corpo di Cristo, vivificato, animato, insegnato e governato dal solo Spirito; e certamente il pensiero dei nostri cuori, radunandoci così, non dovrebbe essere né la cena che ho da mangiare, né la parte che ho da prendere alla riunione, bensì la bontà e la grazia ammirabili di Colui che ci ha affidati allo Spirito Santo, il quale non mancherà, se ci aspettiamo umilmente a Lui, di assegnare ad ognuno il posto e l’azione che gli convengono, senza che vi debba essere in noi nessuna preoccupazione febbrile a questo riguardo. Ogni cristiano non è che un membro del corpo di Cristo, e, se i Corinzi avessero saputo discernere e realizzare questo, certamente chi aveva una cena avrebbe atteso quelli che non ne avevano, per dividere la sua con loro. Parimente, se l’anima mia realizza questa preziosa unità del corpo, e l’umile posto che vi ho come essendo soltanto uno dei membri, mi guarderò bene d’agire nell’assemblea con una precipitazione che potrebbe impedire altri santi di agire; e se sento di avere una parola da rivolgere dalla parte del Signore, ovvero ch’Egli mi chiami a qualche servizio, mi ricorderò sempre che altri possono avere anche qualche cosa da dire, aver ricevuto la stessa chiamata, e lascerò loro il tempo per agire; e, sopratutto, se scorgo un fratello col libro aperto per leggere una parte della Parola o per indicare un inno, aspetterò che l’abbia fatto, invece d’affrettarmi di prevenirlo. Le parole: «aspettatevi gli uni gli altri», possono applicarsi tanto a questo quanto alla frazione del pane; e nel capitolo 14 troviamo che, quando i profeti parlavano nell’assemblea per una rivelazione immediata, dovevano essere talmente sottomessi gli uni agli altri che, anche quando l’uno d’essi parlava, se un altro che era seduto riceveva una rivelazione, il primo doveva «tacere». Inoltre, se, come l’abbiamo già detto, realizzassimo il nostro posto nel corpo e l’unità di questo, l’importanza generale e morale di quella parola: «Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare» (Giacomo 1:19), ci insegnerebbe ad aspettarci così gli uni gli altri.

In terzo luogo, lo scopo della nostra riunione è l’edificazione; su questo l’apostolo insiste in 1 Corinzi 14. Nel capitolo 12, abbiamo il corpo di Cristo sottomesso a Lui come al suo Signore, e testimonio quaggiù di questa sovranità di Cristo, in virtù della dimora e dell’azione dello Spirito Santo, che distribuisce le sue grazie a ciascuno, secondo la sua volontà; questo capitolo termina colla lista dei doni: apostoli, profeti, ecc., che Dio ha messo nella Chiesa nei loro posti diversi d’utilità o di servizio per tutto il corpo. Ci è raccomandato di desiderare i doni migliori, ma nello stesso tempo è fatta allusione ad un sentiero più eccellente, cioè la carità o l’amore, di cui parla il capitolo 13, senza cui i doni più magnifici non sono nulla, e che deve regolare l’esercizio di tutti i doni, affinché il risultato ne sia realmente l’edificazione. Questo è il soggetto del cap. 14. Siccome il dono delle lingue era il dono più meraviglioso agli occhi degli uomini, i Corinzi si compiacevano di farne pompa. Al posto dell’amore che cerca l’edificazione di tutti, era la vanità che cerca di far parata delle proprie capacità. Le quali erano realmente dei doni dello Spirito; ed è per noi, diletti fratelli, una cosa seria da considerare, che la potenza dello Spirito manifestata nei doni, per il servizio, possa essere separata dalla direzione vivente dello stesso Spirito nell’esercizio di questi doni. Questa direzione si fa soltanto sentire dove l’io è crocifisso, dove Cristo è tutto per l’anima. Lo scopo dello Spirito Santo non è di glorificare i poveri vasi di terra che contengono i suoi doni; ma piuttosto di glorificare Cristo da cui provengono questi doni, concedendo a quelli che li han ricevuti, di usarne con grazia, umiltà e rinunciamento a se stesso; e questo per l’edificazione di tutto il corpo. Quanto è bello nell’apostolo Paolo questo rinunciamento a se stesso! Possedeva tutti i doni, eppure con quale semplicità di cuore, egli cercava, non a farne parata, bensì ad esaltare il suo Signore e ad edificare i santi! «Io ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi; ma nella chiesa preferisco dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua». Quanta forza hanno le seguenti parole dello Spirito Santo, uscite dalla penna d’un tal uomo: «Si faccia ogni cosa per l’edificazione»! «Così anche voi, poiché siete desiderosi di capacità spirituali (o doni dello Spirito), cercate di abbondarne per l’edificazione della chiesa».

Inoltre, ogni servitore, per essere fedele, deve agire secondo le direzioni del suo maestro. Donde l’importanza di ciò su cui ho tanto insistito nella mia ultima lettera, vale a dire che, se agisco nell’assemblea dei santi, per indurmi a ciò occorre la piena e seria convinzione nell’anima mia, e dinanzi a Dio, che è secondo la sua attuale volontà. «Per la grazia che mi è stata concessa, dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno» (Romani 12:3). La misura di fede che Dio mi ha dato deve essere la misura di ciò che faccio, e Dio, dando loro la misura di fede necessaria, avrà cura che i suoi servitori sappiano così ciò ch’Egli vorrà che facciano.

Una convinzione salda e sincera che tale è la volontà di Dio, può dunque solo autorizzarmi ad agire come suo servitore nell’assemblea, e anche ovunque. Tuttavia, siccome si può abusare di questo principio, Dio ha provveduto, per mezzo della direzione contenuta in questo passo: «Anche i profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino» (1 Corinzi 14:29) perché vi fosse un freno a questo abuso nell’assemblea. Sta a me, in primo luogo, di giudicare e di sapere se il Signore mi chiama a parlare, o ad agire in altro modo nell’assemblea; ma, quando ho parlato od agito, sta ai miei fratelli di giudicare, e, nella grande maggioranza dei casi, debbo sottomettermi al loro giudizio. Difatti, accadrà ben raramente che un servitore di Cristo si senta autorizzato a continuare ad agire nelle riunioni, quando la sua azione è disapprovata dai suoi fratelli. Se Dio mi chiama a parlare o a pregare nelle riunioni, è evidente che Gli sia tanto facile di disporre i cuori dei santi a ricevere il mio ministerio, e ad unirsi alle mie preghiere, quanto gli è facile di disporre il mio proprio cuore ad un tale servizio.

Se è realmente lo Spirito che mi fa agire, lo stesso Spirito che agisce così per mio mezzo dimora nei santi, e in novantanove casi su cento, lo Spirito che è nei santi risponderà al ministerio o al culto per lo Spirito da parte d’un qualsiasi fratello. Perciò, se mi accorgessi che la mia azione nelle riunioni, invece di edificare i santi, fosse un fardello e una pena per essi, sarei autorizzato a concludere che m’ingannavo prendendo quella posizione e che non ero affatto chiamato ad agire così. Supponete, in seguito, che il motivo il quale impedisce che il ministerio di un fratello sia apprezzato per qualche tempo, si trovi non nello stato di quel fratello, ma in quello dell’assemblea; supponete che quel fratello sia tanto più spirituale dell’assemblea; ch’essa non possa né gustare né apprezzare il suo servizio: in questo caso, non molto frequente, può darsi che quel servitore di Cristo debba esaminare se non sia il caso di imparare dal suo Maestro, ad insegnare e «esponere loro la parola, secondo quello che potevano intendere»; se non ha bisogno di un po’ più dello spirito dell’apostolo Paolo, che poteva dire: «Siamo stati mansueti in mezzo a voi, come una nutrice che cura teneramente i suoi bambini»; e che dice pure altrove: «Vi ho nutriti di latte, non di cibo solido, perché non eravate capaci di sopportarlo; anzi, non lo siete neppure adesso». Se, malgrado questa tenerezza e queste cure piene di discernimento, il ministerio di quel fratello non è ricevuto, sarà certamente una prova per la sua fede; ma, siccome lo scopo di qualsiasi ministerio è l’edificazione, e che è impossibile che i santi siano edificati da un ministerio che non si raccomanda alle loro coscienze, non sarebbe di alcuna utilità imporlo loro, fossero o no capaci di riceverlo. Lo stato generale di debolezza o di malattia d’un corpo, può portare la slogatura di qualche giuntura; in questo caso, non sarà forzando la giuntura slogata a funzionare, che si migliorerà lo stato del corpo. È forse deplorevole che questa giuntura non possa agire; ma il solo mezzo per rimetterla in buono stato, è di accordarle un completo riposo, mentre si cerca con altri mezzi di ristabilire la salute del corpo. Ne è lo stesso nel caso supposto. Continuare ad esercitare un ministerio dove non è ricevuto, anche quando la causa sta nello stato miserabile dell’assemblea, non fa che aggiungere dell’irritazione allo stato generalmente cattivo delle cose, e così renderlo peggiore. Il servitore del Signore troverà allora che la sua sapienza sta nel tacere; ovvero forse il suo Maestro vuole con questo mezzo fargli comprendere che è la sua volontà ch’egli eserciti altrove il suo ministerio.

D’altra parte, diletti fratelli, permettetemi di mettervi seriamente in guardia contro il laccio che, molto probabilmente, Satana cercherà ora di tendervi; intendo parlare dello spirito di critica a riguardo di ciò che si fa nelle riunioni. Gli sforzi del nemico hanno sempre per scopo di spingerci da un estremo all’altro; in modo che, se abbiam peccato d’indifferenza, annettendo troppa poca importanza a ciò che si faceva, è più che probabile che saremo ora esposti al pericolo contrario. Voglia il Signore, nella sua misericordia, guardarci! Nulla indica uno stato di cuore più deplorevole, e nulla può essere ostacolo maggiore alla benedizione, come uno spirito di censura e di critica. Noi ci raduniamo per adorare Dio ed edificarci gli uni gli altri, e non per giudicare i nostri fratelli che agiscono, per decidere se un tale esercita il suo ministerio in modo carnale, e se un altro prega per lo Spirito. Quando la carne si manifesta, bisogna, senza dubbio, che sia giudicata; ma è cosa triste e umiliante di discernerla e di giudicarla così, invece di godere insieme (ciò che è il nostro prezioso privilegio) della pienezza del nostro divin Salvatore e Capo. Guardiamoci dunque da uno spirito di giudizio. Vi sono doni inferiori, quanto doni maggiori, e sappiamo chi ha dato più onore ai membri del corpo che ne mancavano. Gli atti di un fratello nell’assemblea non sono necessariamente tutti carnali, benché agisca fino ad un certo punto nella carne; e, a questo proposito, sarebbe bene per tutti noi di ponderare le parole d’uno dei più stimati servitori di Dio: «È importantissimo, disse egli, che consideriamo primieramente la natura del nostro dono, e, in secondo luogo, la sua misura. In quanto a quest’ultima, non dubito, permettetemi di dirlo, che più d’un dono che non è riconosciuto, lo sarebbe, se, nell’esercizio di questi doni, i fratelli che li hanno ricevuti non ne oltrepassassero la misura. «Se abbiamo carisma (o dono) di profezia, profetizziamo conformemente alla fede (o meglio secondo la proporzione della fede)». Tutto ciò che è al di là di questo limite, è carne: l’uomo si mette avanti, e la cosa è sentita e il dono intiero è rigettato; e questo perché il fratello che ha agito non ha saputo tenersi nella misura del suo dono. Perciò la sua carne agisce, è non è da stupirsi se ciò che dice è attribuito alla carne. Così, quanto alla natura del dono, se un uomo si mette ad insegnare invece di attenersi all’esortazione (se può esortare) non edificherà; è impossibile ch’egli edifichi. Desidererei sopratutto che l’attenzione di ciascuno dei fratelli adoperati nel ministerio della Parola fosse attirata su questa osservazione, che forse non perverrebbe loro mai altrimenti, a causa della mancanza di fedeltà da parte dei loro uditori».

Queste parole sono rivolte a coloro che esercitano un ministerio, ma io le cito, diletti fratelli, affinché impariamo a non condannare tutto ciò che un fratello può dire, o fare, per il fatto che vi discerniamo qualcosa di carnale. Riconosciamo con rendimento di grazie ciò che è dello Spirito, distinguendolo da ogni altra cosa, anche nel ministerio e negli alti dello stesso individuo.

Vi sono ancora due o tre piccoli particolari sui quali vorrei, nella semplicità dell’amore fraterno, aggiungere alcune parole. E innanzitutto per ciò che riguarda la distribuzione del pane e del vino alla tavola del Signore. Da un lato, sarebbe molto desiderabile che questa distribuzione non fosse costantemente ed esclusivamente fatta da uno o due fratelli come se ciò fosse una distinzione clericale; ma, d’altra parte, non vedo nulla nella Scrittura che possa autorizzare qualsiasi fratello a rompere il pane o a dare il calice, senza rendere grazie. In Matteo 26:26-27; Marco 14:22-23; Luca 22:19 e 1 Corinzi 11:24, ci è detto che il Signore Gesù rese grazie quando ruppe il pane e quando prese il calice; e in 1 Corinzi 10:16 il calice è chiamato il calice di benedizione o di rendimento di grazie. Se, dunque, la Scrittura deve essere la nostra guida, non è forse evidente che chi rompe il pane, o prende il calice, dovrebbe nello stesso tempo rendere grazie? e, se qualcuno di noi si sentisse incapace di farlo, non sarebbe per lui, un motivo di chiedersi se è veramente chiamato a distribuire il pane e il vino?

Poi, quanto alla direzione o alla sorveglianza nella Chiesa, e alle qualità che debbono possedere coloro che esercitano un servizio ostensibile in mezzo ai santi, dovremmo tutti studiare con preghiera 1 Timoteo 3 e Tito 1. Il primo di questi capitoli, al verso 6, racchiude una particolarità che è bene ci sia ricordata: «Che non sia convertito di recente, affinché non diventi presuntuoso e cada nella condanna inflitta al diavolo». È possibile che la chiamata di Dio e il dono di Cristo si trovino in un giovane come Timoteo, (o, nell’Antico Testamento, come Geremia); e le parole: «Nessuno disprezzi la tua giovane età», s’applichino, ai giorni nostri a un tale giovane, come un tempo a Timoteo; ma è a Timoteo che erano rivolte le parole: «Che non sia convertito di recente». La sua giovinezza non doveva essere un incoraggiamento ad agire per quelli in cui non si trovano né la grazia, né il dono che erano stati accordati a lui. Ed è anche una cosa naturalmente convenevole che il giovane prenda il posto della sottomissione piuttosto che quella del governo; è questa una verità che, sfortunatamente, mi sembra sia, qualche volta dimenticata: «Così anche voi, giovani, siate sottomessi agli anziani. E tutti rivestitevi di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi ma dà grazia agli umili» (1 Pietro 5:5).

Diletti fratelli, ci accordi il Signore, nella sua misericordia, di camminare umilmente con Lui, e che, in tal modo, nulla si opponga all’opera dello Spirito Santo fra noi.

Il Vostro sinceramente affezionato.

Appendice alla quinta lettera
Caro fratello,

Per ciò che riguarda la vostra prima domanda: «Come può un fratello sapere quando parla o agisce per mezzo dello Spirito?», bisogna prima chiarire che cosa s’intende con ciò, poiché si può pretendere ad una specie d’ispirazione spontanea al momento in cui ci si alza per parlare, ciò che in generale non è che dell’immaginazione e della propria volontà.

È inesatto di considerare l’azione dello Spirito Santo nell’assemblea, come se egli fosse un presidente presente in mezzo ad essa senza essere negl’individui, che s’impadronisce ad un tratto di questo o di quel credente per farlo agire. Non si trova nulla di simile nella Parola dopo la discesa personale dello Spirito Santo. Si potrebbero esaminare, dal capitolo 7 dell’Evangelo di Giovanni fino al secondo capitolo della prima epistola di Giovanni, una cinquantina di passi che trattano della presenza e dell’azione dello Spirito nei santi ed in mezzo a loro, e convincersi che non esiste traccia di questa pretesa presidenza dello Spirito Santo nell’assemblea.

Credo che la reazione legittima contro i principi del clero, che vuol stabilire un solo uomo per far tutto in una congregazione, possa indurre a cadere nell’estremo contrario, ed a fare dell’assemblea una repubblica democratica sotto la pretesa presidenza dello Spirito Santo. Il passo più importante a questo riguardo è 1 Corinzi 12, che sovente è applicato molto male, come se autorizzasse quest’idea di presidenza: «Ma tutte queste cose le opera quell’unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole». Ora si tratta di sapere quando lo Spirito distribuisce un dono a qualcuno. È una volta per sempre, oppure ogni volta che questo dono deve agire? Evidentemente è una volta per sempre.

Il pensiero che lo Spirito Santo s’impadronisca ad un tratto d’un fratello e lo faccia alzarsi, come una molla, nell’assemblea per rendere grazie, per leggere, o meditare, non si trova nella Scrittura dopo la discesa personale dello Spirito Santo. Io posso edificare l’assemblea, parlandole oggi di quel che lo Spirito Santo può avermi dato per mezzo della Parola dieci anni. Nego formalmente che un fratello che si alza in uno dei casi citati, possa dire positivamente nel momento in cui si alza, che lo fa per lo Spirito. Persino quando un fratello si siede, dopo aver reso grazie, per esempio, non deve ricercare per se stesso, se ha realmente agito secondo lo Spirito (benché ne possa aver coscienza), ma l’assemblea che ascolta l’azione di grazie, ha immediatamente coscienza o no, se il rendimento di grazie era il frutto dello Spirito o quello della carne; il suo amen conferma la cosa. Dico: l’assemblea come tale; non parlo delle persone, che, per cattivo spirito e per antipatia potrebbero decidere in anticipo di rigettare l’azione del tale o tal altro fratello. Costoro vedrebbero dei Nadab e degli Abihu dove l’assemblea aggiunge il suo amen per lo Spirito.

Vediamo come principio, in 1 Corinzi 14, che non era il tutto di parlare per lo Spirito nell’assemblea; occorreva ancora parlare al momento opportuno affine di edificare l’assemblea. Quelli che avevano dei doni di lingue parlavano per lo Spirito, ma quando, nell’assemblea, usavano questi doni, che erano un segno per quelli del di fuori (1 Corinzi 14:22) essi non edificavano l’assemblea; e l’apostolo dice loro che se non hanno interpreti, debbono tacere nell’assemblea.

Da questi principi, la vostra domanda dovrebbe piuttosto essere questa: «L’azione di un fratello, che parla più o meno sovente nell’assemblea, edifica essa l’assemblea?». Se l’assemblea come tale (non si tratta di individui) può rispondere sì, allora quel fratello ha la testimonianza che egli parla secondo lo Spirito, senza pretendere, quando parla, ad una ispirazione. Ma se l’assemblea (supposta nel suo stato normale) rispondesse che l’azione del suddetto fratello non edifica; allora, secondo i principi emessi in 1 Corinzi 14:22, quel fratello deve tacere. La Parola c’insegna in questo capitolo, che essa non vuole altra azione nell’assemblea se non quella che edifica l’assemblea, si tratti di rendimento di grazie o di insegnamento. (Vedere i vers. 13-25). Accadeva persino che si pregasse per lo Spirito, senza essere l’organo dell’assemblea, non potendo questa comprendere per dire: Amen.

La vostra domanda: «Può lo Spirito chiamare un fratello ad evangelizzare nel culto?» riposa ancora su questa falsa nozione d’ispirazione spontanea. Io dico che un fratello, insegnato da Dio, non evangelizzerà nel culto, perché si è quivi per Dio e non per gli uomini (1 Pietro 2:5).

La strana domanda: «Che cosa si viene a fare nelle riunioni di culto?» trova la sua risposta in particolare in quello stesso passo di 1 Pietro 2:5, poi fra l’altro, nelle parole del Signore in Giovanni 4:23-24, in seguito in Luca 22:19-20, relativamente alla cena, la base del culto, e anche in Atti 20:7, dove troviamo che lo scopo del radunamento, il primo giorno della settimana, era «per spezzare il pane».

Riguardo alla vostra ultima domanda: «Se un fratello evangelista di passagio tiene un’adunanza, un fratello uditore deve interessarsi per aiutarlo? E dobbiamo riconoscere quel fratello evangelista come mandato?», rispondo primieramente che è ben semplice di riconoscere quel fratello evangelista come mandato; poiché la Parola non conosce altri evangelisti all’infuori di quelli che il Signore ha dati dopo essere entrato nella gloria (Efesini 4:11-12). (Non metto in questione la libertà d’annunziare Cristo, che ogni cristiano possiede, a tempo e luogo). Ma occorre notare che uno di quegli evangelisti d’Efesini 4 — come anche un dottore, ecc. — esercita il dono ricevuto sotto la sua propria responsabilità davanti al Signore che l’ha mandato.

Un tal fratello agisce per il suo Signore. È responsabile del suo proprio lavoro davanti al suo Signore che l’ha mandato. Orbene quando questo fratello esercita il suo dono dinanzi ad un uditorio convocato per lui, se un uditore interviene per aiutarlo, quest’uditore usurpa i diritti dell’evangelista, e i diritti del Signore che l’ha mandato. Per me, questo principio è di somma importanza. Quando sono uditore d’un fratello che ha convocato una riunione per esercitare il suo dono, non indicherei nemmeno un cantico se non me lo chiede. Due fratelli possono accordarsi per agire insieme. Per esempio lo Spirito aveva messo a parte Barnaba e Paolo (Atti 13). Tuttavia anche allora si vede che Paolo specialmente annunziava la Parola (Atti 14:12).

A riguardo dell’evangelizzazione, è bene di notare che l’evangelista è un individuo. La Parola non conosce un’assemblea evangelista. Aggiungerò ancora in quanto ai doni e al loro esercizio nell’assemblea, che un fratello avente un dono, non deve, nelle riunioni d’assemblea, prendersi la responsabilità di tenere la riunione, sopratutto in un’assemblea locale. Un tal fratello sarà più felice di udire altri fratelli render grazie, indicare cantici, esprimere alcuni pensieri, non tuttavia sul principio radicale che ognuno ha il diritto di parlare. Notate a questo riguardo che il passo 1 Corinzi 14:26, è piuttosto un rimprovero che un’esortazione; non è: «Se ciascuno ha». Ognuno aveva qualche cosa, e aspettava il momento di prodursi con ciò che aveva, senza preoccuparsi troppo se ciò tendeva all’edificazione.

Un fratello che ha un dono deve ancor meno immaginarsi che tocchi a lui fare il culto la domenica mattina, sia nella sua assemblea locale, sia altrove. Come sacerdote ed adoratore, egli è sullo stesso piede di tutti coloro che compongono l’assemblea. Come fratello uomo (1 Timoteo 2:Cool, avente azione pubblica in contrasto con la donna, che non l’ha, non è superiore ad un altro, in modo da essere l’organo dell’assemblea nei rendimenti di grazie. Ma se, come fratello, vive vicino al Signore, può avere da rendere grazie più d’un altro, che per esempio sarà molto occupato negli affari della vita. Così questo fratello potrebbe offrire tre o quattro rendimenti di grazie nella stessa riunione di culto, ed essere ogni volta l’organo dell’assemblea. Ma questo fratello sarà ad un tempo più felice d’essere uditore, e di dire amen alle azioni di grazie d’altri fratelli che son vicini al Signore. Soffrirà se s’accorge che i fratelli si aspettano a lui per render grazie, come pure se s’accorge che dei cari fratelli che rendono grazie altrove, si prendono soggezione di farlo alla sua presenza.

Ma quando si tratta dell’insegnamento della Parola, quel fratello ha sempre il sentimento, al culto come altrove, della sua responsabilità per il dono che il Signore gli ha affidato per l’edificazione dell’assemblea. E se la sua azione è il frutto della comunione col Signore, essa si legittimerà ogni volta all’assemblea, malgrado l’elemento radicale che può esistere nel seno di quest’ultima.

La nozione che un fratello dotato non debba esercitare il suo dono nelle riunioni di culto, né rendervi grazie più di un altro, non ha alcun fondamento scritturale. Come supporre che Timoteo, o Tito, o Epafra, o Stefano (per non nominare Paolo, Pietro, Giovanni), fossero meno atti d’altri, ad essere gli organi dell’assemblea nei rendimenti di grazie del culto; e che quei fratelli dovessero astenersi per lasciare il posto agli altri?…

Alcuni pensano anche che gli adoratori siano i fratelli che s’alzano per rendere grazie; questo è sbagliato... Tutte le sorelle sono adoratori, ed esse non debbono mai alzarsi per rendere grazie. Tutti i fratelli sono adoratori, ma ahimè, tutti non sono spirituali, pii, vicini al Signore, per poter essere ognuno l’organo dell’assemblea nelle azioni di grazie. Così pure alcuni non sono abbastanza semplici per farlo come lo fanno a tavola in casa loro.

Infine, quanto ad agire per lo Spirito, prendiamo esempio da Paolo e Barnaba in Atti 13. Ecco degli uomini che erano dati dal Signore salito nella gloria, secondo Efesini 4:11-12; e, in Atti 13, lo Spirito Santo li mette a parte e li manda. Essi sono dunque designati dallo Spirito Santo una volta per sempre per andare a parlare del Signore ovunque, tutti i giorni, sotto la sua dipendenza senza dubbio. Non dovevano dunque chiedersi quando si trovavano dinanzi alla folla, sulle pubbliche piazze, nelle sinagoghe, e più tardi nelle assemblee dei fratelli, se lo Spirito Santo li chiamava a parlare in quel momento; essi erano là per questo scopo, mandati d’Antiochia dallo Spirito Santo...

Quando più tardi, Paolo si trovò per una sola domenica e per l’ultima volta, in una certa assemblea (Atti 20:7-12), dove parlò molto a lungo, che cosa si sarebbe pensato d’un fratello, di Troas che avesse insinuato agli altri fratelli che Paolo occupava troppo posto nel culto? Prendo questo esempio come principio; non tutti sono dei Paolo. Felici i santi che, liberati da questo spirito livellatore, sanno riconoscere il Signore, là dove Egli ha accordato qualche grazia per la comune utilità. Oltre ad Efesini 4:11-12, e 1 Corinzi 12, leggete anche con attenzione 1 Corinzi 16:15-18; 1 Tessalonicesi 5:12-13; Ebrei 13:17.



William Trotter
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