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 Giudici da cap 17 a 21

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Giudici da cap 17 a 21
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Henri Rossier

4.1 Il levita di Giuda (leggere cap. 17)

I capitoli da 17 a 21 sono come un’appendice del libro dei Giudici, appendice di grande importanza per completare il quadro morale della decadenza d’Israele, ma che, per la data, va posto prima della narrazione del nostro libro, risalendo agli ultimi tempi di Giosuè e degli anziani che lo seguirono. Era importante mostrare che, se da un lato la decadenza fu graduale, dall’altro la rovina fu immediata e irrimediabile, appena Dio ebbe affidato al suo popolo il dovere di mantenere le precedenti benedizioni. Era pure importante stabilire, come vedremo più tardi, che il fine di Dio non è la rovina, bensì la restaurazione d’un popolo che possa rimanere unito davanti a lui, dopo che i castighi hanno avuto il loro corso e ottenuto il loro risultato. Occorreva pure mostrare che la crisi del sacerdozio ha contribuito notevolmente alla decadenza generale. Tutti questi soggetti, e altri ancora, si trovano condensati nei capitoli di cui stiamo per occuparci.

La data di tali avvenimenti la troviamo in tre passi, che citerò per quelli a cui interessa la struttura del libro. Il primo di questi passi si trova al cap. 13:1. Al cap. 19:47 del libro di Giosuè, troviamo che la tribù di Dan s’impadronì di Lescem (che è Lais del cap. 18 dei Giudici), all’epoca in cui le dodici tribù dovevano conquistare la loro eredità. Nel secondo passo, al v. 12 del capitolo 18 leggiamo che «Mahané-Dan» riceve questo nome dalla spedizione di Dan, mentre al principio della storia di Sansone (cap. 13:25), è un luogo già conosciuto. Infine, al cap. 20:28, «Fineas, figlio di Eleazar, figlio di Aaronne, faceva allora il servizio dell’Eterno»; da ciò si conclude che quei giorni seguirono immediatamente quel che ci è riportato in Giosuè 24:33.

Stabiliti questi dettagli, troviamo nei capitoli 17 e 18 il quadro della corruzione religiosa d’Israele. Una situazione di rovina che non offre un solo luogo dove il cuore possa riposarsi, e quando, alla luce della Parola, l’avremo considerata, comprenderemo che il nostro unico rifugio in questo dilagare del male è Dio solo. Questi capitoli sono legati fra loro da una frase caratteristica, ripetuta quattro volte: «In quel tempo non v’era re in Israele; ognuno faceva quel che gli pareva meglio» (17:6; 21:25; 18:1; 19:1).

Prima: «Non vi era re in Israele». Non era ancora venuto il tempo in cui Israele avrebbe chiesto: «Stabilisci su di noi un re che ci amministri la giustizia, come l’hanno tutte le nazioni» (1 Samuele 8:5). Fin qui il popolo aveva avuto per re l’Eterno; ora, l’Eterno era dimenticato o lasciato da parte, benché la sovranità, secondo il sistema delle nazioni, non fosse ancora stabilita. Il popolo aveva abbandonato il sistema del governo divino, senza aver ancora instaurato quello dei governi del mondo.

In secondo luogo: «Ognuno faceva quel che gli pareva meglio». Si aveva, come oggi, il principio della libertà di coscienza. Ognuno pretendeva di aver per regola la propria coscienza, mentre la vera luce della Parola di Dio era lasciata da parte e non se ne parlava più. Quanto questi tempi differivano da quelli di Giosuè, in cui la Parola era l’unica guida e l’unica autorità d’Israele! (Giosuè 1:7-9). La coscienza, malgrado il suo immenso valore per l’uomo, non è una guida, ma un giudice. Come potrebbe guidare l’uomo, dal momento che può addormentarsi, indurirsi, cauterizzarsi?

Questi capitoli ci mostrano dove arrivarono gli Israeliti, quando ciascuno faceva ciò che gli pareva meglio. L’idolatria era germogliata a lato di alcune forme religiose levitiche che sussistevano ancora. Si seguivano gl’impulsi del proprio cuore, credendo di far bene, e si commettevano spaventose iniquità. Questo succede anche nel cristianesimo dei nostri giorni.

La dimenticanza degli ordinamenti della Parola di Dio caratterizza Mica, l’uomo del monte d’Efraim di cui ci parla questo capitolo. Uno ruba, anche se la legge aveva detto «Non rubare» (Esodo 20:15), e la sua coscienza non lo rimprovera quando confessa il fatto. La madre dice: «Io consacro di nuovo questo argento a pro del mio figliuolo, per farne un’immagine scolpita e un’immagine di getto» (v. 3), dimenticando che era scritto: «Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna... non avere altri dii nel mio cospetto» (Esodo 20:3-4). Essa associa l’Eterno ai suoi idoli, cosa ancora più grave della semplice idolatria, e la sua coscienza non la rimprovera. Ella s’era fatta un culto a suo modo, a cui il figlio colpevole s’associa pienamente.

Il culto del mondo religioso di oggi non è molto diverso, poiché il nome del Signore è mescolato agli oggetti delle concupiscenze del cuore dell’uomo, a tutte quelle cose di cui è scritto: «Figliuoletti, guardatevi dagli idoli» (1 Giovanni 5:21). L’arte, la musica, l’oro, l’argento e le cose preziose, ornano ciò che si chiama il culto di Dio; gli uomini fanno posto a ciò che il mondo stima e concupisce, alle ricchezze, all’influenza, alla sapienza umana. Così, «Mica ebbe una casa di Dio e fece un efod e degl’idoli». Poi «consacrò uno dei suoi figliuoli, che gli servì da sacerdote» (v. 5). La Parola di Dio era totalmente dimenticata. Suo figlio non aveva alcun diritto al sacerdozio, né Mica aveva alcun diritto di consacrarlo.

Ma un fatto nuovo si presenta. Un levita di Giuda, che come tale aveva dei rapporti col tempio dell’Eterno, ma nessun diritto al sacerdozio, passa di là per caso, in cerca di dimora. Mica gli dice: «Rimani con me, siimi padre e sacerdote; ti darò dieci sicli d’argento all’anno, un vestito completo e il vitto» (v. 10). Così stabilisce in casa sua un levita autentico, che vale per lui più di un figlio, lo mantiene e lo paga. È un clero, costituito con gli stessi principi di tutti i cleri dei giorni nostri.

Notiamo in che modo Dio ci racconta queste cose. Non biasima, non si sdegna; descrive i fatti e li pone dinanzi a noi. Coloro che sono spirituali sanno capire ed imparano ad essere estranei, come lo è Dio, a tutti i princìpi di cui questo capitolo ci dà il triste quadro. L’uomo carnale resta nel suo accecamento. Mica, facendo ciò che credeva bene, e illudendosi di guadagnarsi il favore dell’Eterno, dice: «Ora so che l’Eterno mi farà del bene, perché ho un Levita come mio sacerdote» (v. 13). Ma quanto si ingannava!
4.2 Dan e il levita di Giuda (leggere cap.18)

Questo capitolo ci presenta i rapporti di una delle tribù con il sistema religioso del cap. 17. Quella di Dan aveva dimostrato di essere la più debole delle tribù d’Israele; respinta nella montagna dagli Amorrei (1:34), e senza fede sufficiente per prendere possesso della sua eredità, manda cinque uomini in ricognizione perché gli cerchino la parte che gli mancava ancora. Lais era una città tranquilla e prosperosa, situata all’estremità nord di Canaan. La sua conquista fu facile per i Daniti, e senza gloria, ma rappresentava ciò che il cuore naturale può desiderare. «È un luogo — dicono le spie mandate in ricognizione — dove non manca nulla di ciò che è sulla terra» (v. 10).

Lais, come Sodoma prima della distruzione, assomigliava a un «giardino dell’Eterno». Sodoma fu una «conquista» degna d’un Lot ma non sarebbe stata degna di Abramo; così la città di Lais tenta ora la tribù di Dan, indebolita e senza voglia di combattere. Dan avrebbe dovuto dar battaglia agli Amorrei della valle e ottenere una clamorosa vittoria, ma questa battaglia gli sarebbe costata troppo cara. La tribù di Dan preferisce una conquista senza rischio, riportata lontano dagli occhi dei testimoni dell’Eterno. E il nemico, quello vero, è così lasciato padrone della vera eredità di quella tribù.

I cinque uomini, nel loro viaggio, incontrano il levita nella casa di Mica e gli chiedono: «Chi t’ha condotto qui? e che fai in questo luogo? e che hai tu qui?» (v. 3). Queste domande avrebbero dovuto aprire gli occhi del levita. Che poteva rispondere? Era arrivato lì di sua propria volontà, poiché cercava di stabilirsi in qualche luogo; ed ora faceva ciò che Mica gli aveva detto di fare; aveva del denaro e una paga. Proprio i caratteri del clero, che può sussistere anche senza Dio, dipendere dagli uomini e lavorare in vista d’un salario. Essi gli dicono: «Deh! consulta Iddio, affinché sappiamo se il viaggio che abbiamo intrapreso sarà prospero» (v. 5). È presso un tal uomo che quei cinque «esploratori» cercano una direttiva per il loro viaggio! La risposta, ovviamente, non è quella di Dio ma è quella che essi desiderano: «Andate in pace; il viaggio che fate è sotto lo sguardo dell’Eterno» (v. 6). Alla falsa pretesa d’essere l’oracolo del popolo, quel levita unisce il nome dell’Eterno.

Più tardi, la tribù di Dan, tornando in armi, si impadronirà degli dèi di Mica e del suo sacerdote. Faranno di tutto per convincerlo: «Che è meglio per te, esser sacerdote in casa d’un uomo solo, ovvero essere sacerdote di una tribù e d’una famiglia in Israele?» (v. 19). Lo chiamano ad una posizione più influente e più rimunerativa. La volontà di Dio non entra affatto nei pensieri del sacerdote: egli «si rallegrò in cuor suo» (v. 20); «prese l’efod, gl’idoli e le immagini scolpite, e s’unì a quella gente» (v. 20). Il levita porta con sé gl’idoli, e così l’idolatria prende ufficialmente posto in mezzo alla tribù di Dan con colui che gli uomini chiamano «il loro sacerdote».

Mica li insegue: «Avete portato via gli dèi che m’ero fatti e il sacerdote, e ve ne siete andati. Ora, che mi resta egli più?» (v. 24). Che frase! Gli avevano tolto la sua religione e il suo clero; non gli restava più nulla! Un uomo di fede non avrebbe risentito la perdita di queste cose, anzi sarebbe stata per lui una liberazione; gli sarebbe rimasto Dio, la sua Parola, il vero sacerdozio.

I figli di Dan continuano il loro viaggio, colpiscono la città di Lais, se ne impadroniscono, e le danno il nome «Dan, dal nome di Dan loro padre» (v. 29). Il nome di Dan ha più importanza per loro del nome dell’Eterno. Tale è, in poche parole, l’oscuro quadro della storia religiosa d’Israele.
4.3 Il levita d’Efraim (leggere cap. 19)

I capitoli 17 e 18 ci hanno presentato lo stato religioso d’Israele e l’influenza che la classe pseudo-sacerdotale esercitava su di lui. Questo cosidetto sacerdozio, corrotto dal punto di vista religioso, manteneva nel popolo l’idolatria. I racconti descritti al cap. 17, come abbiamo già visto, si sono svolti in un tempo che precede quello dei Giudici, ma sono riportati qui, alla fine del libro per farci vedere, come in un quadro, il progresso del male in Israele. È un po’ il metodo seguito dallo Spirito di Dio nell’evangelo di Luca, dove i fatti sono raggruppati senza tener conto della loro data ma per darci un insieme di certe verità morali.

Sansone, l’ultimo dei giudici, invocava ancora l’Eterno in certe circostanze memorabili della sua vita; il levita di Giuda lo invoca soltanto sulla testa delle sue immagini e dei suoi serafini; il levita di Efraim, di cui stiamo per esaminare la storia, non lo invoca nemmeno più. Sembra che l’Eterno non esista più per lui; eppure lui è un levita e fa parte d’una discendenza destinata al servizio del Signore. Al cap. 19 troviamo i rapporti del levita di Efraim non più con lo stato religioso bensì con lo stato morale del popolo, ancora peggiore del primo.

La concubina del levita lo abbandona dopo essergli stata infedele. Egli la insegue, guidato dal cuore; e, facendo «ciò che gli pareva bene», si unisce ad essa. Ciò soddisfa il padre della donna, che vede nell’azione del levita la riabilitazione di sua figlia. Ma, ahimè! senza ch’egli nemmeno se ne accorga, così facendo è come se giustificasse il male e approvasse l’impurità e la corruzione. Il suocero, furbamente, lo trattiene in casa sua perché, in questo modo, la riabilitazione della figlia diventa pubblica e ufficiale (v. 4-9). È sempre così. Il mondo ci mostra la sua amabilità in proporzione a quanto noi serviamo ai suoi interessi; l’alleanza con la famiglia di Dio non gli è contraria se può trarne un vantaggio. Il levita, non avendo relazione con Dio e non avendo altra guida che la propria coscienza, si lascia influenzare e finisce col cadere nell’infedeltà.

Ripreso il viaggio, il levita non vuole pernottare in una città di Gebusei, «una città di stranieri, i cui abitanti non sono figliuoli di Israele» (v. 12). Egli teme di associarsi esteriormente al mondo, anche se interiormente è impuro. Così fanno anche molti cristiani. Si può essere molto rigorosi per ciò che riguarda il cammino «pubblico», ma molto indifferenti per quanto concerne la santità individuale. Il levita è affezionato al suo popolo ma non ha lo stesso affetto per l’Eterno; anzi, l’Eterno non entra affatto in tutto ciò. Il levita fugge i Gebusei per orgoglio nazionale più che per pietà e, a sentirlo parlare, sembrerebbe che ciò che proviene da Israele non possa essere che buono, mentre Israele ha già oltraggiosamente abbandonato l’Eterno. Questi princìpi non sono cambiati e caratterizzano anche la nostra decadenza.

Il levita va a Ghibea, città di Beniamino, ma non è ricevuto. Eppure, a Israele l’Eterno aveva raccomandato espressamente di «non abbandonare il levita» (Deuteronomio 12:19). Quella gente non offre asilo al servitore dell’Eterno, anche se quest’uomo moralmente non lo era. Si vede al v. 18 quali sentimenti fa nascere nel suo cuore un tale comportamento «Ora mi reco alla casa dell’Eterno e non v’è alcuno che mi accolga in casa sua».

Ma ecco che uno straniero, che abita a Ghibea in mezzo a una corruzione che ben conosce (infatti dice: «Non devi passar la notte sulla piazza»), lo riceve in casa sua. Allora accade un fatto abominevole. Le passioni impure degli uomini di Ghibea, che pure portano il nome dell’Eterno, uguagliano in orrore quelle della città maledetta, di Sodoma.

Tali cose accadono in Israele! Come «le mosche morte fanno puzzare il profumo» (Eccl. 10:1), così la corruzione del popolo di Dio è la peggiore delle corruzioni. Infatti gli angeli non intervengano per liberare il giusto, come era avvenuto nel caso di Lot. L’ospite del levita parla ai suoi concittadini, come Lot, alla porta di casa (v. 23), accettando un gravissimo male, quello di dare la propria figlia, pur di evitarne uno ancora peggiore. Non può essere che questo il principio d’azione dei credenti che dimorano in mezzo al mondo. Dio preserva quest’uomo dal vedere la sua casa contaminata da quelle infamie, anche se per lui non c’era altra via d’uscita. La figlia è risparmiata, ma il levita abbandona la sua concubina alla violenza impura di quella gente (v. 25).

Se il levita si fosse rivolto a Dio, ricordando la sua protezione dei tempi passati, queste cose avrebbero potuto essere evitate. L’Eterno non avrebbe potuto, come al tempo di Lot, colpire quel popolo di cecità? Ma nessun grido d’angoscia sale a Lui; nessuna comunicazione esiste più tra il suo cuore e Dio.

La disgraziata donna, che già era caduta in un grave peccato senza pentimento né travaglio di coscienza, muore adesso come vittima delle spaventevoli conseguenze di ciò che aveva un tempo concupito (v. 26-28). Dio lascia che il male si compia, ma, come ce lo insegneranno i capitoli seguenti, da questo orrendo male trarrà la sua gloria.

La Parola di Dio ci presenta sempre due grandi soggetti: ciò che Dio è e ciò che l’uomo è. Dio non cerca mai di nascondere la condizione dell’uomo poiché, se lo facesse, non sarebbe luce, e la sua Parola sarebbe falsata. Dio ci dipinge l’uomo com’è: indifferente, anche se religioso, violento e corrotto, egoista, ipocrita, empio, apostata, sia quando ancora non aveva la Sua legge, sia sotto la legge, sia sotto la grazia. Ma ci mostra anche il lavoro della Sua grazia, sotto tutte le sue forme e a tutti i livelli, nel cuore dell’uomo. Otteniamo così un quadro reale ed esatto del nostro stato, e siamo costretti a concludere che siamo senza risorse in noi stessi, e che vi sono risorse solo nel cuore di Dio.
4.4 Breccia e restaurazione (leggere cap. 20)

In seguito al delitto di Ghibea, dall’estremità nord all’estremità sud tutte le tribù si radunano «come un sol uomo dinanzi all’Eterno in Mitspa». Sembra che manchi ben poco ad una giusta unanime protesta contro il male. C’è dello zelo per informarsi e purificarsi, e anche il sentimento della solidarietà d’Israele che, più tardi, mancherà sotto Debora, Gedeone e Jefte. L’azione e i sentimenti delle undici tribù offrono soprattutto una bella dimostrazione d’unità (v. 1, 8, 11), poiché manca solo la tribù più piccola, quella di Beniamino, la tribù colpevole. Anche il centro dell’unità del popolo è riconosciuto, poiché si radunano a Mitspa, dinanzi all’Eterno, e salgono a Betel.

Cosa mancava a Israele? Una cosa, il «primo amore». Il primo amore è verso Dio e verso i fratelli. Verso Dio l’amore si era raffreddato. Israele ascolta, riflette, decide... e alla fine consulta Dio (v. 18). Invece di cominciare dalla parola di Dio, l’ascolta alla fine. Questa parola non è disprezzata, ma non occupa più il primo posto. È un segno dell’abbandono del primo amore. «Chi ha i miei comandamenti, e li osserva, quello mi ama». «Se uno mi ama, osserverà la mia parola» (Giovanni 14:21,23). «Questo è l’amore di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti» (1 Giovanni 5:3). Un altro segno negativo è nel fatto che i loro cuori sono più commossi dall’onta fatta ad Israele (v. 6,10,13) che dal disonore fatto a Dio. E ciò accade perché Dio non ha più il posto che dovrebbe avere.

L’abbandono del «primo amore» si mostra anche nel nostro modo d’agire verso i fratelli. Del resto, i rapporti con Dio e coi fratelli sono intimamente legati fra loro. «Chi ama Dio, ama anche il suo fratello» (1 Giovanni 4:21). Gli Israeliti vedono in Beniamino un nemico e, malgrado la bella apparenza d’unità, non considerano il peccato di quella tribù come quello di loro tutti. Essi dicono: «Che delitto è questo che è stato commesso fra voi?» (v. 12). Non dicono: commesso da noi. Che differenza fra questo tipo di amore e quello descritto in 1 Corinzi 13:4-7! Lo zelo c’era ma non bastava a compensare la mancanza del primo amore. Qui si trova ciò che leggiamo anche in Apocalisse 2:2 nei confronti di Efeso: «Non puoi sopportare i malvagi»; però il Signore deve aggiungere: «ma ho questo contro di te: che hai lasciato il tuo primo amore». Gli Israeliti dicono: «Togliamo via il male da Israele» (v. 13), ma dov’erano le affezioni fraterne? Questo è il pericolo che anche oggi si corre quando si esercita la disciplina nella Chiesa; perciò i Corinzi sono esortati a ratificare il loro amore verso colui che era caduto nel peccato, dopo che la disciplina aveva avuto il suo corso (1 Corinzi 5 e 2 Corinzi 2:5-11). Se il popolo, contestando il male a Beniamino, dice «voi» invece di noi, quando si tratta di colpire dice «noi»: «Consegnate quegli uomini quegli scellerati... perché noi li mettiamo a morte, e togliamo il male da Israele» (v. 13). L’abbandono del primo amore apre la porta alla propria importanza.

I Beniaminiti avevano peccato gravemente sopportando il male nell’interno della loro tribù. Ed ora, il rimprovero degli altri Israeliti, invece di umiliarlo, lo spinge ad un atto gravissimo: «Uscirono dalle loro città... per andare a combattere contro i figliuoli d’Israele» (v. 14). Essi si alleano con i loro fratelli perversi, quelli di Ghibea. Si radunano in Ghibea, escono in battaglia davanti a Ghibea, escono di Ghibea (v. 14, 15, 20, 21). La mancanza d’umiliazione ha una terribile conseguenza; non solo non giudicano il male, ma giungono fatalmente al punto di scusarlo, mettendosi dalla parte del malvagio contro il resto del popolo di Dio. Apparentemente intendono agire «senza contare gli abitanti di Ghibea» (v. 15), ma in realtà enumerano e approfittano dei loro 700 guerrieri scelti. In quest’esercito, i «mancini» sono tanto numerosi quanto i guerrieri scelti di Ghibea, come ai tempi di Ehud (cap. 3:16-30); ma qui i «mancini» sono abili contro l’Eterno ; la loro mano, che dovrebbe essere fatta per la difesa, si trova forte per l’attacco e inganna coloro che stanno loro di fronte.

Ed ora Israele interroga Dio (v. 18). Salga Giuda per primo, risponde Colui che vuole castigare Israele. Ventiduemila uomini di Giuda mordono la polvere. Che grazia di Dio in questa sconfitta! Israele deve imparare che nei combattimenti tra fratelli non vi possono essere né vincitori né vinti, ma che tutti devono essere vinti, affinché il Signore trionfi alla fine. Dio si serve così della sconfitta per restaurare il suo popolo diletto. Israele esce fortificato da un combattimento che gli è costato il meglio delle sue forze vive, e ne esce giudicato a fondo. Quando i loro ventiduemila uomini sono caduti, i figli d’Israele si fortificano (v. 22).

Notate quali frutti porta loro il castigo:

   Sono indotti a ricercare la presenza del Signore a Bethel.
   Al posto dell’indignazione umana, sono afflitti d’una afflizione che è secondo Dio, e i loro pianti ne sono la prova.
   L’afflizione non è passeggera, poiché piangono fino a sera.
   Imparano a dipendere più realmente dalla parola di Dio, e non dicono più: «Chi salirà per primo?» ma: «M’avvicinerò io di nuovo?»
   Infine, rinasce l’affezione per il fratello caduto, poiché dicono: «I figliuoli di Beniamino, mio fratello» (v. 23).

Il risultato è degno di Dio! Non la vittoria, bensì la sconfitta produce queste cose, frutti benedetti della disciplina; eppure devono essere prodotti ancora altri frutti: «Salite contro a loro», dice l’Eterno.

Una seconda sconfitta atterra altri 18.000 uomini d’Israele. Allora:

   Tutti i figliuoli d’Israele, tutto il popolo, «salirono e vennero alla Casa dell’Eterno». Nessuno manca: essi sono unanimi nel ricercare l’Eterno.
   E, invece di piangere fino alla sera, «piansero, e rimasero quivi davanti all’Eterno». L’afflizione è più profonda e duratura davanti a Dio.
   «E digiunarono quel dì fino alla sera». È più che afflizione; è umiliazione, il giudizio della carne e il pentimento.
   «E offrirono olocausti e sacrifici di azione di grazie, davanti all’Eterno». Ritrovano queste due cose d’un valore infinito, l’apprezzamento del sacrificio e la comunione. La dipendenza dalla parola di Dio e la realizzazione della sua presenza acquistano, sotto la disciplina di Dio, tutt’altro valore. Il popolo ha coscienza di trovarsi davanti a Dio stesso, seduto sull’arca fra i cherubini, e s’avvicina a Lui per mezzo d’un sacerdote che intercede per Israele.
   Finalmente, la propria volontà è completamente rotta: Debbo io seguitar ancora a combattere contro i figliuoli di Beniamino mio fratello, o debbo cessare?» (v. 26-28). Che restaurazione! E ciò che l’ha prodotto è stato un male orribile. Non che Dio sottovaluti il male, ma, per l’interesse che Egli ha per il suo popolo, si serve anche del male per benedirlo. Ormai, Dio può benedire e promettere la vittoria.

Allora ha luogo la battaglia in cui Israele, riabilitato, pur sperimentando ancora la sua debolezza e la sua incapacità, riporta la vittoria; però, quasi una tribù è persa! Beniamino è sconfitto dal popolo umiliato. È il principio di ogni disciplina nell’assemblea. Senz’amore, senza dipendenza da Dio e dalla sua Parola, senza giudizio di se stesso, la disciplina sarà sempre in colpa. È soltanto a queste condizioni che l’assemblea potrà purificarsi dal vecchio lievito.
4.5 I frutti della restaurazione (leggere cap. 21)

Il ristoramento d’Israele ha come conseguenza il rifiuto assoluto di ogni alleanza col male. «Or gli uomini d’Israele avevano giurato a Mispa, dicendo: Nessuno di noi darà la sua figliuola in moglie a un Beniaminita» (v. 1). Quando i credenti ritrovano, sotto l’azione della grazia di Dio, il «primo amore» per il Signore, non diventano più tolleranti riguardo al male, perché più la comunione con Dio è intima più ci separa dal male. Ma nello stesso tempo questa separazione non sminuisce affatto l’amore verso i fratelli. Lo si vede qui. Per la terza volta il popolo sale a Bethel. Questo luogo così significativo, finalmente ritrovato, gli diventa indispensabile. La sconfitta lo aveva spinto a Bethel; la vittoria lo riporta a Bethel. «E il popolo rimase fino alla sera davanti a Dio». La prima volta «piansero e rimasero quivi davanti all’Eterno»; adesso, l’importante è rimanervi. «Il mio cuore ha detto da parte tua: Cercate la mia faccia. Io cerco la tua faccia, o Dio!» In mezzo al male e alle tristezze del giorno d’oggi siamo anche noi felici di cercare la presenza del Signore e di restare «fino a sera» dinanzi a Lui?

Le lacrime vengono in seguito, e quali lacrime! «E il popolo, alzando la voce, pianse dirottamente». Per la prima volta, sentendo tutta l’amarezza della piaga, gli Israeliti dicono: «O Eterno, o Dio d’Israele, perché mai è avvenuto questo in Israele, che oggi ci sia una tribù di meno?». Non dicono: Il male è tolto, siamo finalmente in pace e tranquilli. L’amarezza è proporzionata al ritrovato amore per il Signore e per i fratelli. Manca una tribù; il «corpo» sente il dolore di questa «amputazione». Il Dio d’Israele è disonorato, Lui che aveva davanti agli occhi, nel suo tabernacolo, la tavola d’oro con i «dodici» pani di presentazione. Israele non pensa più al suo disonore. Adesso piange amaramente davanti all’Eterno; ed è appunto quando l’unità sembra perduta per sempre, che la sua realtà si fa sentire nel cuore del popolo. Agli occhi del Signore, è più vera unità questa che l’unità apparente del popolo decaduto, al principio del cap. 20.

I primi raggi del mattino vedono Israele all’opera per costruire un altare. Il popolo può dire col salmista: «Io ti cerco all’alba». L’umiliazione non impedisce il culto. Quale grazia che resti un altare del Signore in mezzo a questo stato di cose! Tre fatti hanno preceduto questo culto: la separazione decisa da ogni male, la ricerca della presenza di Dio, la rovina profondamente sentita e riconosciuta. Là essi offrono degli olocausti e dei sacrifici di azioni di grazie. Là il cuore comprende che cosa è il sacrificio per Dio, e qual è la parte che Dio ci dà con Sé.

Tutte queste benedizioni ritrovate con l’umiliazione sono il punto di partenza del giudizio di Jabes di Galaad. Questi non erano saliti verso l’Eterno nel raduno a Mispa. Il motivo era l’indifferenza verso il giudizio del male che aveva disonorato Dio e il disprezzo dell’unità del popolo. La gente di Jabes avrà detto: Queste cose non ci riguardano. Quante volte abbiamo udito simili parole ai nostri giorni! Per un tale rifiuto non v’è misericordia; ma prima di eseguire il giudizio, Israele esercita la misericordia.

«E i figliuoli d’Israele si pentivano di quello che avevano fatto a Beniamino loro fratello e dicevano: Oggi è stata soppressa una tribù d’Israele. Come faremo a procurar delle donne ai superstiti giacché abbiamo giurato nel nome dell’Eterno di non dar loro in moglie alcuna delle nostre figliuole?» (v. 6-7). Il giudizio serve proprio ad esercitare questa misericordia, poiché la soppressione di Jabes ha per scopo il ristoramento della tribù di Beniamino. Ecco ciò che Israele aveva ricavato da questo lungo e doloroso conflitto. Beato colui che impara tali cose e che sa conciliare il «perfetto odio» verso il male con un amore sincero per i suoi fratelli. Le quattrocento vergini di Jabes sono date per mogli al povero residuo della tribù di Beniamino.

Ma ciò non basta; bisogna che la ferita sia curata completamente. Ed è l’amore che trova il modo di guarirla. È l’amore che suggerisce ad Israele un metodo per aiutare i suoi fratelli, senza rinnegare i suoi doveri verso Dio e senza abbassare il livello della separazione dal male. Israele si lascia predare da Beniamino in Sciloh (v. 17-21), per così dire, sotto lo sguardo del Signore. Abbandonando la parte di vincitore e accettando di essere il vinto, lascia l’ultima parola al suo fratello così crudelmente provato dal castigo. «E quando i loro padri o i loro fratelli verranno a noi a querelarsi con noi, noi diremo loro: Datecele, per favore, giacché in questa guerra noi non abbiam preso una donna per uno» (v. 22). Israele non dice: Essi non hanno preso, ma «noi non abbiamo preso». Questa frase, che denota la loro delicatezza e la loro tenerezza verso i Beniaminiti, quanto differisce da quell’altra parola: «Che delitto è questo che è stato commesso fra voi?» (cap. 20:12). Israele non separa più la sua causa da quella dei suoi fratelli. Questa unità del popolo, formata da Dio stesso, ha ritrovato tutta la sua importanza agli occhi dei fedeli in quei giorni di decadenza.

Sia lo stesso di noi, fratelli miei! Se gli uomini, se persino dei cristiani, stimano poco la divina unità della Chiesa, oppure si accontentano di un’unità apparente; se formano delle alleanze fra le diverse denominazioni cristiane senza tener conto della Verità, non partecipiamo a simili cose. Umiliamoci per la rovina della Chiesa, ma anche proclamiamo altamente che «vi è un solo corpo ed un unico Spirito». Impegnamoci a «conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace» (Efesini 4:3-4). Rifiutiamo ogni comunione col male morale e religioso del giorno d’oggi. Soprattutto, «rivestiamoci della carità, che è il vincolo della perfezione» (Colossesi 3:14).

Ecco l’insegnamento del libro dei Giudici. Esso termina ripetendo quella frase solenne che caratterizza i «giorni malvagi»: «In quel tempo, non v’era re in Israele; ognuno faceva ciò che gli pareva meglio» (v. 25). Dio non cambia questa situazione deplorevole, la constata soltanto; ma distoglie i suoi dalla luce confusa d’una coscienza che serve per giudicarli ma non per guidarli, e li mette invece davanti alla luce della sua Parola infallibile, l’unica capace di guidarli, di edificarli e di dar loro un’eredità con tutti i santificati (Atti 20:32).

«Alla legge! alla testimonianza!» (Isaia 8:20). Questo principio è la nostra unica salvaguardia in un tempo di rovina!
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