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 Giosue Capitolo 22

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Henri Rossier
Capitolo 22: L’altare di Ed

Ritroviamo qui le due tribù e mezzo, di cui abbiamo parlato alla fine del primo capitolo. Esse avevano preso le armi, insieme ai loro fratelli, per combattere i nemici del Signore nel paese della promessa; ora ricevono da Giosuè il permesso di ritornare alla loro eredità dall’altra parte del Giordano. Esse erano state fedeli agli ordini di Mosè e di Giosuè, avevano osservato il comandamento del Signore, e non avevano abbandonato i loro fratelli. L’obbedienza a comandamenti positivi e l’amore fraterno le avevano caratterizzate tutto il tempo in cui erano state separate dalla terra di loro possesso. In apparenza non ci sarebbe stato nulla da rimproverare loro, ma come vedemmo al cap. 1, il loro cuore (non dico i loro pensieri) non era alle cose celesti. Il loro punto di partenza era il bestiame; era perciò naturale cercare dei pascoli per nutrirlo. Immediatamente, al principio della loro storia, un primo pericolo nasce dalla loro posizione equivoca. Mosè lo segnala loro in Numeri 32; il rifiuto di stabilirsi al di là del Giordano poteva influenzare il rimanente del popolo, e fargli perdere coraggio, in modo da attirare l’ira del Signore su Israele, come prima alla montagna degli Amorrei. Per la grazia essi furono preservati dal laccio, ma il laccio esisteva ancora. C’era però un pericolo più reale: i loro principi agivano sui loro parenti più prossimi, meno al sicuro delle altre tribù. Iair, figlio di Manasse, e Nobah, chiamano i loro villaggi e le loro città con il loro nome, principio mondano, che si può far risalire all’inizio del mondo di Caino (Numeri 32:41-42, cf. Genesi 4:17). Il pericolo di far cadere, con il loro cammino, degli uomini di fede, oppure di abbassarli al loro livello, invece che elevarli al livello celeste, e un’influenza mondana sulle loro proprie famiglie, caratterizza la loro posizione.

L’esortazione di Giosuè (22:5) ci mostra anche chiaramente il pericolo di un cristianesimo senza potenza. La vera energia della loro condotta come credenti mancava. L’obbedienza a comandamenti conosciuti e l’amore fraterno non bastano per mantenerci saldi. Il cammino, l’obbedienza, lo zelo e il servizio devono procedere dall’amore; si è, senza la sua azione, come un cerchio che il primo colpo di bacchetta di un bambino fa muovere, ma che subito si ferma e cade se l’impulso non si ripete.

Ma non è tutto. Quando il cristiano, invece di vivere di fede, accetta in qualche misura i principi del mondo per la sua condotta, la sua posizione diviene molto complicata; eppure non v’è nulla di più semplice che il cammino della fede! Confrontate Abramo con Lot. La vita del primo fu semplice e lineare; quella del secondo fu piena di inestricabili complicazioni. E Giacobbe? Che serie d’avventure senza uscita in un’esistenza tormentata, mentre suo padre viveva semplicemente con Dio! Lo stesso fu per le due tribù e mezza che si videro costrette a farsi dei recinti per il gregge, a stabilire le loro famiglie in città murate, ad abbandonare mogli e figli per passare parecchi anni lontani da loro, senza poter rendere testimonianza delle meraviglie che il Signore stava facendo in favore del suo popolo. Finalmente ricevono l’autorizzazione a rientrare nelle loro case. Ma ora si accorgono di una nuova difficoltà. Il Giordano li separa dalle altre tribù; essi temono che il legame che li unisce ai loro fratelli non sia abbastanza forte per non essere sciolto dal fiume che li separa. La loro posizione li espone a una divisione, e vedono con preoccupazione che potrebbe venire il momento in cui i loro fratelli li tratterebbero da stranieri. Quel pericolo li costringe, per così dire, a stabilire una testimonianza con la quale proclamare altamente che servono il Signore, come prima avevano fatto (1:16-18) quando la loro posizione equivoca li obbligava. Essi elevano ora un altare molto grande presso il Giordano, sul limite del loro territorio. Questa testimonianza è da loro stabilità secondo la loro propria sapienza. Vorrei chiamarla una «professione di fede», cosa, in se stessa, perfettamente corretta, come anche lo era l’altare di Ed, di cui per il momento non v’era nulla da dire, ma che dava loro l’apparenza di stabilire un altro centro di radunamento.

Quell’altare, destinato, secondo il loro pensiero, a unire le parti separate d’Israele, poteva essere eretto in opposizione a quello di Sciloh. La loro professione di fede poteva divenire un nuovo centro, e sostituire così il solo vero centro d’unità, oggi per noi Cristo, disonorandolo. Quell’atto, compiuto con le migliori intenzioni, era un atto umano. Il loro mezzo escogitato per mantenere l’unità, dà l’apparenza di negarla. Così si espongono ad essere mal compresi, a sollevare le altre tribù contro loro, e rischiano di essere sterminati.

Caro lettore, la cristianità, fin dal principio, non ha agito altrimenti; essa è andata molto più lontano delle due tribù e mezza. Ha formato un gran numero di confessioni di fede, più o meno corrette, che non sono Cristo; e così, invece di realizzare l’unità, non fece altro che introdurre l’incredulità più aperta in seno alla professione cristiana.

Ma quell’altare di Ed, frutto della mondanità, potrebbe diventare più pericoloso ancora, e nascondere, nella sua impostazione, dei principi d’indipendenza, che si potrebbero temere. I fìgli d’Israele prendono ciò molto a cuore. L’indipendenza è sul punto d’introdursi, l’unità è in pericolo, e Fineas, esempio dello zelo per Cristo, è scelto per andare insieme ai capi del popolo a prendere conoscenza di ciò che avviene al di là dal Giordano, e parlare alle due tribù e mezza.

Egli presenta loro tre casi, intimamente legati, nei quali tutto Israele è responsabile.

Il primo (v. 20), dopo la traversata del Giordano, è il peccato di Acan. Egli concupì le cose del mondo, si impossessò di ciò che Dio aveva maledetto, e l’introdusse nel mezzo dell’assemblea d’Israele, non tenendo alcun conto della santità di Dio, e attirando così il giudizio del Signore su tutto il popolo. Il peccato di Acan è la concupiscenza del mondo che introduce l’interdetto nell’assemblea. L’iniquità di Peor (v. 17) è una cosa ben peggiore, sebbene in materia spirituale i cristiani la comprendano e la odino così poco. È l’alleanza adultera col mondo religioso, che allora era idolatra, e l’introduzione di quella religione del mondo in mezzo alla congregazione d’Israele, non tenendo di nuovo in alcun conto la santità di Dio.

Caro lettore, non ha la Chiesa fatto lo stesso? Non sono forse Acan e Peor i due principi attuali della sua esistenza? Ma la malizia satanica di Peor è più terribile ancora dell’interdetto di Acan. Quando Balaam, dopo aver tentato di separare l’Eterno dal popolo, vide che non poteva riuscirvi, fece un altro tentativo: cercò, e vi riuscì, di allontanare il popolo e separarlo dal Signore. Quando si trattò delle affezioni di Dio per il suo popolo, Balaam dovette proclamare che il Signore non aveva visto iniquità in Israele; ma quando si trattò della fedeltà di quest’ultimo, Satana riuscì a separarlo da Dio, e in tal modo la collera del Signore s’accese contro tutta la radunanza d’Israele.

Il secondo tranello a cui i credenti sono esposti è dunque di pensare che il culto di Dio possa allearsi con la religione del mondo. Fu in quell’occasione che si manifestò in primo luogo lo zelo di Fineas; egli prese a cuore il disonore fatto al Signore e purificò l’assemblea da quella contaminazione.

Ora, riguardo all’altare di Ed, quel medesimo zelo lo spinge a mettersi sulla breccia. I sensi «esercitati a discernere il bene e il male», gli fanno scoprire il pericolo. Egli sente che quel terzo principio, l’indipendenza, sarebbe la rovina della testimonianza e che lo stabilire un nuovo altare altro non è che il peccato di ribellione contro il Signore e contro la radunanza d’Israele (v. 19). Il santo zelo di Fineas scongiura il pericolo, che rimane tuttavia; ma essendo le intenzioni del cuore rette, non vi furono conseguenze.

Nella cristianità, il correttivo non è stato così felice. Il male ha fatto progressi. Cosa vediamo oggi? L’indipendenza, principio stesso del peccato e tendenza naturale dei nostri cuori, è pubblicata altamente come una qualità e come un dovere. Essa, dimenticando che vi è un solo altare, una sola tavola, ne stabilisce sempre delle nuove; essa, come dice Fineas, «si ribella contro all’Eterno», e sprezza, nel suo accecamento, non solo l’unità del popolo di Dio, ma l’unico centro di unità (per noi il Signore Gesù).

Che Dio ci guardi, caro lettore, da questi tre principi che attirano il giudizio di Dio sulla sua casa: la mondanità, l’alleanza col mondo religioso, e l’indipendenza, il più sottile e il più pericoloso di tutti, perché, come principio di peccato, è alla base di tutto il resto.

Ricordiamo dei caratteri di Cristo espressi nella lettera a Filadelfia. Egli è «il Santo e il Verace», e quella assemblea è lodata per il mantenimento di quel santo nome e per la dipendenza dalla Parola. Non conserviamo, né individualmente, né collettivamente, nei nostri cuori, nei nostri pensieri, nella nostra condotta, nessuna cosa che non sia in rapporto con quei caratteri di Cristo. Viviamo nella santità e nella dipendenza, senza le quali non v’è comunione con Lui.
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