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 Il profeta Elia 3a parte

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girolamo
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MessaggioIl profeta Elia 3a parte

Il profeta Elia 3a parte
Il profeta Elia 3a parte Presen10
Charles Henry Mackintosh

È stato pubblicato in italiano con W.W. Fereday come autore.

In Izebel vediamo una donna a cui non mancava né l’interesse, né l’energia. Per lei, la controversia fra l’Eterno e Baal era della più grande importanza ed essa era risoluta ad agire con decisione. «E Izebel mandò un messo ad Elia per dirgli: Gli dèi mi trattino con tutto il loro rigore, se domani a quest’ora non farò della vita tua quel che tu hai fatto della vita di ognuno di quelli». Ecco ora il profeta chiamato a sopportare l’uragano della persecuzione. Lo si era visto, al monte Carmel, tener testa a tutti i profeti di Baal; fin qui la sua carriera non era stata che un trionfo, risultato della sua comunione con Dio; ma ora gli sembra che il suo sole tramonti e che il suo orizzonte diventi oscuro e lugubre. «Elia vedendo questo, si levò e se ne andò per salvarsi la vita; giunse a Beer-Sceba, che appartiene a Giuda, e vi lasciò il suo servo; ma egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino, andò a sedersi sotto una ginestra, ed espresse il desiderio di morire, dicendo: Basta! Prendi ora, o Eterno, l’anima mia, poiché io non valgo meglio dei miei padri». Lo spirito d’Elia è abbattuto; egli non vede le cose che attraverso l’oscura nuvola da cui è avvolto; tutto il suo lavoro gli appare come fatto per il nulla e senza frutto; non gli rimane che coricarsi e morire. Il suo cuore è spossato dagli sforzi infruttuosi per ricondurre la nazione all’antica fede e desidera ardentemente entrare nel riposo. Ma in tutto ciò scorgiamo gli effetti dell’impazienza e dell’incredulità. Elia non parlava del suo desiderio di morire quand’era sul monte Carmel. Là tutto era trionfo; là sapeva di compiere un’opera, sapeva di essere utile; di conseguenza il pensiero della morte non gli si presentava alla mente.

Ma il Signore voleva mostrare al suo servitore non solo ciò che doveva fare, ma anche ciò che doveva soffrire. «Fare», ci piace abbastanza, ma a «soffrire» non siamo tanto disposti. Eppure il Signore è tanto glorificato da chi soffre pazientemente quanto dal servitore più attivo. È ciò che il nostro profeta avrebbe dovuto ricordare. Ma, ahimé, i nostri cuori possono comprenderlo e simpatizzare con lui nel suo stato di tristezza e di scoraggiamento. Sono rarissimi i servitori del Signore che non abbiano, almeno una volta, desiderato di abbandonare le fatiche della lotta, soprattutto in tempi in cui il loro lavoro e la loro testimonianza sembrano vani. Ma bisogna aspettare il tempo di Dio, e fino allora cercare di proseguire la corsa in un servizio fedele, paziente e senza mormorio. Il pensiero del riposo è dolce per l’uomo che ha molto lavorato; è dolce pensare alle «molte stanze» preparate dal sangue del nostro Signore Gesù Cristo; al tempo in cui il nostro Dio di misericordia asciugherà ogni lacrima dagli occhi nostri; è dolce pensare a quei verdi pascoli e a quelle sorgenti d’acqua viva, a cui l’Agnello condurrà il suo gregge durante le età future di gloria. Però non abbiamo il diritto di dire: «O Signore, prendi ora la mia vita!». È soltanto uno spirito d’impazienza che può dettare un tale linguaggio. Come sono diverse le parole dell’apostolo Paolo: «Io sono stretto dai due lati; ho il desiderio di partire e d’essere con Cristo, perché è cosa di gran lunga migliore; ma il mio rimanere nella carne è più necessario per voi. Ed ho questa ferma fiducia ch’io rimarrò e dimorerò con tutti voi per il vostro progresso e per la gioia della vostra fede» (Filippesi 1:23-26).

C’è in queste parole uno spirito veramente cristiano. Il servitore della Chiesa deve cercare il bene della Chiesa e non il proprio vantaggio. Se Paolo non avesse pensato che a sé, non avrebbe voluto rimanere un momento di più sulla terra; ma quando considerava lo stato e i bisogni della Chiesa, desiderava continuare a rimanere per contribuire alla sua gioia e ai progressi della fede dei santi. Avrebbe dovuto essere quello anche il desiderio di Elia; ma egli falli in questo. È fuggito nel deserto in un momento di debolezza per salvare la propria vita; e là esprime il desiderio che la sua vita gli sia tolta, unicamente per sfuggire alle prove che la posizione di fedeltà gli attiravano.
Tutto ciò può offrirci un’utile lezione.
L’incredulità ci allontana sempre dal posto della testimonianza e dal servizio. Finché Elia camminò per fede, fu al suo posto di servitore e di testimone; ma appena la fede sparì, abbandonò quel posto e se ne fuggì nel deserto. L’incredulità ci rende sempre inadatti al servizio e fa di noi dei servitori disutili. È quel che dovremmo ricordarci nel tempo in cui viviamo e nel quale tante persone lasciano il sentiero della fedeltà e se ne allontanano. Vediamo parecchi credenti che un tempo avevano camminato in quel sentiero in modo deciso, perché avevano compreso (così dicevano) questa grande verità: la presenza dello Spirito Santo nell’Assemblea. Ora, quando questa verità è realmente capita e realizzata, affranca il cristiano dall’autorità dell’uomo in materia di fede e lo conduce fuori dai sistemi che riconoscono e sostengono questa autorità. Se è lo Spirito Santo che governa nell’Assemblea, l’uomo non ha il diritto di intervenire in questo governo; non ha il diritto di istituire delle cerimonie; poiché, facendolo, usurpa con presunzione le prerogative divine. Se un uomo crede di cuore a questa importante verità, essa avrà influenza sulla sua condotta, si sentirà chiamato a separarsi da ogni sistema nel quale questa verità è in pratica negata. Il primo dovere dell’uomo è di «cessare di fare il male», ma poi deve «imparare a fare il bene». Tuttavia, parecchi di quelli che professarono un tempo di aver compreso questa verità, hanno perduto la fiducia in essa e sono tornati ai sistemi da cui erano usciti. Come Elia, non hanno realizzato i risultati che si aspettavano; e questo li ha allontanati e li ha portati a dire con scoraggiamento: «Basta!». Così più d’un cuore è oggi curvato verso terra sotto il peso della tristezza. In molti casi l’«io» si è manifestato nel modo più umiliante, e il nemico si è affrettato a trarre profitto da tutto questo per scoraggiare quelli che desideravano rimanere fermi in una chiara testimonianza per Cristo. Facciamo bene attenzione: è l’incredulità che spinse Elia a fuggire nel deserto, ed è pure per incredulità che un cristiano abbandona la posizione di testimonianza.

L’uomo può mancare, anche nei suoi migliori sforzi per mettere in pratica la verità di Dio; ma i falli degli uomini possono forse annullare la verità di Dio? «Così non sia! Sia Iddio riconosciuto verace e ogni uomo bugiardo». Se quelli che fanno professione di attaccamento alla dottrina dell’unità della Chiesa si dividono in vari partiti; se quelli che mantengono la dottrina della presenza dello Spirito nell’Assemblea per ciò che concerne il governo e il ministerio, s’appoggiano, in pratica, sull’autorità dell’uomo; se quelli che dicono di aspettare l’apparizione personale e il regno del Signore Gesù, ricercano con avidità le cose di questo mondo; tutte queste incoerenze e contraddizioni possono forse annullare quei principi celesti? Certamente no. Grazie a Dio, la verità sarà la verità sino alla fine. Iddio sarà sempre Dio, quand’anche l’uomo si mostrasse mille volte più imperfetto di quel che è. Così dunque, invece di abbandonarci allo scoraggiamento, perché l’uomo ha mancato nell’uso che doveva fare della verità di Dio, il nostro compito è ugualmente quello di tener fermamente questa verità come il solo puntello delle anime nostre e in mezzo alla rovina e al naufragio universali. Se Elia fosse stato saldo nella verità che riempiva l’anima sua, quand’era sul monte Carmel, non lo si sarebbe mai visto sotto la ginestra, non lo si sarebbe mai udito pronunciare parole come queste: «Prendi ora l’anima mia; poiché non sono migliore dei miei padri».

Il Signore può incontrare in grazia il suo povero servitore, anche se dorme sotto una ginestra. Egli sa di che cosa siamo fatti, si ricorda che sialmo polvere. Però, invece di esaudire la richiesta del suo servitore stanco ed abbattuto, cerca di sostenerlo e di fortificarlo in vista di nuove lotte. Non è questo «il modo d’agire degli uomini» (2 Samuele 7:19); ma è il modo d’agire di Dio, le cui vie non sono le nostre vie, e i cui pensieri non sono i nostri pensieri. L’uomo agisce sovente con rigore e severità verso il suo simile, senza nessuna indulgenza per lui; Iddio invece agisce sempre con la più tenera compassione verso i suoi figliuoli, Egli comprendeva Elia; si ricordava della fedeltà con cui aveva poco prima lottato per il suo Nome e per la sua verità; perciò gli viene in aiuto nel tempo del suo abbattimento. «Ed Elia si coricò e si addormentò sotto la ginestra; quand’ecco un angelo lo toccò e gli disse: Alzati e mangia. Egli guardò e vide presso il suo capo una focaccia cotta su delle pietre calde e una brocca d’acqua. Egli mangiò e bevve poi si coricò di nuovo. E l’angelo dell’Eterno tornò la seconda volta, lo toccò e disse: Alzati e mangia, poiché il cammino è troppo lungo per te. Egli s’alzò, mangiò e bevve; e per la forza che quel cibo gli dette, camminò quaranta giorni e quaranta notti, fino a Horeb, il monte di Dio» (cap. 19:5-Cool. Il Signore conosce meglio di noi ciò che abbiamo da fare e nella sua grazia ci fortifica secondo il bisogno per l’opera che dobbiamo compiere. Il profeta afflitto desiderava dormire, ma il Signore voleva fortificarlo per un ulteriore servizio. Così pure i discepoli, nell’orto di Getsemani, abbattuti da profonda tristezza alla vista dell’apparente naufragio di tutte le speranze che avevano così ardentemente accarezzate, si lasciano cogliere da un sonno profondo, mentre il loro Maestro voleva che avessero i lombi cinti e le braccia raffermate per le scene terribili in cui dovevano entrare. Ma Elia mangiò e bevve, e così fortificato camminò fino a Horeb, il monte di Dio, il monte della legge. Là pure dobbiamo segnalare i tristi effetti d’uno spirito impaziente. Elia sembra deciso a lasciare definitivamente il suo posto di servizio e di testimonianza. Se non può più dormire sotto una ginestra, si nasconderà in una caverna. «E quivi entrò in una spelonca e vi passò la notte».

Quando un cristiano si permette di allontanarsi dalla posizione nella quale la fede può preservarlo, è impossibile prevedere fino a che punto può cadere. Solo la fede costante nella parola di Dio può mantenerci nel sentiero del servizio, perché per la fede l’uomo si sottomette ad aspettare la fine; ma l’incredulità, che guarda soltanto alle circostanze del momento, è impaziente e immerge l’uomo in un completo scoraggiamento. Il cristiano deve prevedere di incontrare quaggiù prove e delusioni. Sovente pensiamo al riposo e alla felicità che potremmo trovare quaggiù in una condizione diversa da quella in cui ci troviamo, ma non è che un sogno. Elia, certo, aveva sperato di vedere un immenso cambiamento morale operarsi per mezzo suo, e invece anche la sua vita è minacciata. Avrebbe dovuto esservi preparato! L’uomo che aveva, senza timore, tenuto testa ad Achab e a tutti i profeti di Baal, doveva certo essere in grado di sostenere la minaccia d’una donna. Invece no; la sua fede si era eclissata. Quando la fede abbandona qualcuno, questi ha paura persino della propria ombra. Contemplando il profeta sul monte Horeb si è indotti a chiedersi: È proprio lo stesso uomo che abbiamo visto sul monte Carmel? quello che edifica un altare di dodici pietre, e che perora in modo così trionfante la causa dell’Iddio d’Israele in presenza dei suoi fratelli? Ahimè! che misera creatura è mai l’uomo quando non è sostenuto da una fede semplice nella testimonianza di Dio! Nello stesso modo Davide poteva, ragazzo com’era, sfidare Goliath nella potenza della fede, e più tardi dire in cuor suo: «Un giorno o l’altro io perirò per le mani di Saul» (1 Samuele 27:1). La fede si pone al disopra delle circostanze e guarda a Dio; l’incredulità perde di vista Dio e non vede che le circostanze. L’incredulità dice: «Ci pareva d’esser locuste»; la fede dice «Possiamo benissimo soggiogarlo» (Numeri 13:30, 34).

Tuttavia, l’Eterno non abbandona il suo servitore nella spelonca; non cessa di seguirlo e di cercare di ricondurlo al posto che l’impazienza e l’incredulità gli hanno fatto lasciare. «Ed ecco, gli fu rivolta la parola dell’Eterno, in questi termini: Che fai tu qui, Elia?». Che rimprovero! Perché Elia si nascondeva così in una caverna? Perché aveva abbandonato l’onorevole posto di testimonianza? A causa del messaggio minaccioso di Izebel, e perché il suo ministerio non era stato riconosciuto pienamente, come egli si aspettava. Elia s’immaginava di meritare una mietitura più abbondante per tutto il suo lavoro; s’aspettava ben altro che un messaggio minaccioso ed un’apparente diserzione generale; perciò si ritirò in una caverna di montagna, posto adatto per coltivare il suo malcontento. Bisogna ammettere che vi fosse, comunque, in ciò che era accaduto, di che ferire il cuore del profeta: era uscito dal suo tranquillo rifugio di Sarepta per affrontare tutto il popolo, indottrinato da Izabel e da un’armata di preti malvagi e di falsi profeti; aveva, per la grazia di Dio, confuso questi ultimi; Iddio aveva fatto scendere il fuoco dal cielo, in risposta alta sua preghiera e tutto Israele sembrava avesse riconosciuto la verità, come egli l’aveva proclamata. Queste cose facevano nascere delle legittime speranze; eppure, dopo tutto ciò la sua vita è minacciata, non vede nessuno che si schieri con lui, è avvolto da una nube oscura; così abbandona il campo di battaglia e si nasconde in una spelonca.

È molto più facile criticare gli altri che agire rettamente, e dobbiamo pensarci due volta quando si tratta di pronunciare un giudizio sugli atti d’un servitore di Dio, com’era Elia il Tishbita. Ad ogni modo, possiamo trarre ammaestramento e avvertimento da questa triste parte della storia del nostro profeta. Possiamo impararvi una lezione di cui abbiamo tutti molto bisogno. «Che fai tu qui?»; è una domanda che potrebbe essere rivolta a più d’uno di noi, allorché cedendo all’impazienza o all’incredulità, lasciamo il nostro posto di servizio e di testimonianza fra i nostri fratelli, per andare a «dormire» o a «nasconderci». È a tali credenti che la domanda «Che fai tu qui?» dovrebbe essere indirizzata con forza particolare. Cos’è questo modo d’agire? o piuttosto, perché agisci tu in modo da fare del male alle pecore di Gesù? Un uomo che si ritira non è inoffensivo, è nocivo; e fa torto ai suoi fratelli. Meglio sarebbe valso che non si fosse mai messo avanti come fautore di verità essenziali, che ritrarsi, dopo averlo fatto; si è molto colpevoli se, dopo aver attirato l’attenzione su alcuni grandi principi della verità divina, si finisce poi per abbandonarli. Dobbiamo aver pietà dell’ignorante, e sforzarci di istruirlo; ma colui che, avendo professato di conoscere la verità, l’abbandona più tardi non può essere considerato come qualcuno da istruire.

Ma non sono soltanto l’incredulità e i disappunti in rapporto a certe verità che spingono alcuni ad un desolante isolamento; delle delusioni, reali o apparenti, nel ministerio possono avere lo stesso effetto. E fu forse proprio questo che addolorò particolarmente Elia. Il trionfo che aveva riportato sul monte Carmel gli aveva senza dubbio fatto intuire delle speranze molto elevate, riguardo ai risultati del suo ministerio, e non era preparato a vedere il contrario. Ora, il sommo rimedio a queste due malattie morali, cioè l’incredulità riguardo a una verità importante e la delusione relativamente al nostro ministerio, è di tenere lo sguardo semplicemente e costantemente fissato su Gesù.

Sappiamo qual’era il vero stato d’animo del profeta dalla risposta al rimprovero di Dio: «Sono stato mosso da una grande gelosia per l’Eterno, per l’Iddio degli eserciti, perché i figliuoli d’Israele hanno abbandonato il tuo patto, han demolito i tuoi altari, e hanno ucciso con la spada i tuoi profeti; son rimasto io solo, e cercano di togliermi la vita». Che differenza fra questo linguaggio e quello che faceva udire al monte Carmel! Là egli difendeva la causa di Dio, qui egli perora per sé; là si sforzava di convertire i suoi fratelli presentando loro la verità di Dio, qui accusa i suoi fratelli, ed espone i loro peccati davanti a Lui .

«Io sono stato mosso da una grande gelosia», ma «essi hanno abbandonato il tuo patto». Ecco il modo con cui il profeta, nella spelonca dei monte Horeb, esprimeva li suo malcontento. E si considerava, sembra, come il solo uomo che avesse fatto o facesse qualche cosa per Dio. «Son rimasto io solo, e cercano di togliermi la vita». Tutto ciò non era che la conseguenza naturale della posizione che aveva assunta, andandosene seguendo l’impulso del cuore. Appena un servitore di Dio abbandona, senza motivo, il suo posto di testimonianza e di servizio fra i suoi fratelli, comincia ad innalzar se stesso e ad accusare loro. Ma a tutti quelli che si separano dai loro fratelli, accusandoli, s’indirizza la domanda: «Che fai tu qui?».

Tuttavia, il nostro profeta è chiamato ad uscire dal suo luogo di reclusione. «Esci, fuori», gli dice Dio, «e fermati sul monte dinanzi all’Eterno. Ed ecco, passava l’Eterno. Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce dinanzi all’Eterno, ma l’Eterno non era nel vento. E dopo il vento, un terremoto; ma l’Eterno non era nel terremoto. E, dopo il terremoto, un fuoco; ma l’Eterno non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, un suono dolce e sommesso». Per mezzo di queste solenni manifestazioni di sé e dei suoi atti meravigliosi, il Signore voleva insegnare al suo servitore, in modo molto espressivo, che Egli non si serviva di un solo agente per eseguire i suoi disegni. Il vento era uno di questi agenti, e un agente potente; nondimeno non era per mezzo del vento che lo scopo di Dio doveva essere raggiunto; altrettanto era del terremoto e del fuoco, i cui terribili effetti non servivano che ad aprire la via all’ultimo agente, al più debole in apparenza, cioè alla voce dolce e sommessa.

Così il profeta doveva imparare ad accontentarsi d’essere un agente, fra un gran numero d’altri. Aveva forse pensato che tutta l’opera dovesse esser fatta da lui; arrivando, come l’aveva fatto, con l’impetuosità spaventevole d’un vento violento, si sarebbe aspettato di rovesciare tutti gli ostacoli, e ricondurre la nazione al suo posto di fedeltà verso Dio. Ma quanto è difficile, anche per lo strumento più eminente, comprendere la propria nullità! Gli uomini più devoti, i meglio dotati, i più onorati, non sono che delle pietre nella struttura, dei chiodi nel vasto meccanismo, e uno che si considerasse come lo strumento per eccellenza, si troverebbe bentosto deluso. Paolo può piantare, Apollo innaffiare, ma è Dio che fa crescere. Così il profeta doveva imparare che il Signore voleva adoperare altri strumenti ancora; che aveva nel suo turcasso altre frecce ch’Egli avrebbe lanciato a suo tempo. Il vento, il terremoto e il fuoco dovevano fare ciascuno l’opera sua; dopo di che la voce dolce e sommessa avrebbe potuto essere udita distintamente e con efficacia. A Dio solo appartiene di farsi udire, anche se parla con «voce dolce e sommessa». Elia rimane nella spelonca, finché questa voce gli giunge all’orecchio; allora «si coprì il viso con mantello, uscì fuori e si fermò all’ingresso della spelonca».

Ci è facile formarci un’alta opinione di noi e del nostro ministerio, finché non siamo condotti nella presenza di Dio; allora impariamo a coprirci il viso con un mantello, cioè impariamo veramente a cancellare noi stessi. Quando Mosè si trovò nella presenza di Dio «si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Iddio» (Esodo 3:6). Quando Giobbe si vide in quella presenza, ebbe «orrore» di sé e si pentì «nella polvere e nella cenere» (Giobbe 42:6). Ed è così di tutti quelli che, in qualsiasi tempo, hanno imparato a conoscersi alla luce della presenza di Dio. Là hanno imparato la loro totale nullità; là hanno imparato che Dio poteva fare a meno di loro. Il Signore è sempre pronto a riconoscere il più piccolo atto di servizio per Lui, ma appena un servitore è orgoglioso del suo servizio, il Signore gli mostra che non ha più bisogno di lui.

Fu il caso di Elia. Si era ritirato dal campo di attività e di combattimento, e aveva espresso un ardente desiderio di partire dal corpo; si credeva un testimonio isolato e unico, un servitore abbandonato e deluso; l’Eterno gli ordina di mettersi davanti a Lui, ed è là, in certo modo, che gli revoca la sua missione e gli annunzia i nomi dei suoi successori. «E l’Eterno gli disse: Va’, rifà la strada del deserto fino a Damasco, e quando sarai giunto colà, ungerai Hazael come re di Siria; ungerai pure Jehu, figliuolo di Nimsci come re d’Israele, e ungerai Eliseo figliuolo di Shafat da Abel-Mehola, come profeta, in luogo tuo. E avverrà che chi sarà scampato dalla spada di Hazael, sarà ucciso da Jehu; e chi sarà scampato dalla spada di Jehu, sarà ucciso da Eliseo. Ma io lascerò in Israele un resto di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato dinanzi a Baal, e la cui bocca non l’ha baciato». Queste parole erano atte a gettare una gran luce nello spirito del profeta. Settemila! e lui s’immaginava di essere rimasto solo! Non mancheranno mai gli strumenti all’Eterno. Se il vento non basta, ha il terremoto; se il terremoto non basta, ha il fuoco; e dopo tutti questi ha «la voce dolce e sommessa».

Così Elia imparò che altri ministeri potevano agire su Israele. Hazael, Jehu ed Eliseo sarebbero apparsi sulla scena, e come la voce dolce e sommessa si era era dimostrata potente per far uscire Elia il Tishbita dalla caverna, così il ministerio di grazia di Eliseo si mostrerà potente per far uscire dai loro nascondigli le migliaia di fedeli che Elia non aveva saputo scoprire. Non era lui a dover far tutto; egli era solo uno degli agenti di Dio. «L’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te; né il capo può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi» (1 Corinzi 12:21).

Tale era, credo, l’importante insegnamento dato al nostro profeta per mezzo delle scene solenni del monte Horeb. Vi era salito pieno di sé; era stato sul monte col pensiero di essere il solo testimone; ne è disceso con la nozione umiliante, ma salutare, di non essere che uno dei settemila. Che differenza dal suo modo di vedere e di giudicare! Nessuno può insegnare come Dio. Quando vuole impartire una lezione, può farlo in modo efficace, sia benedetto il Suo Nome! Elia, conosciuta la propria incapacità, fu felice di rifare la strada, di uscire dalla spelonca, e discendere dal monte; fu felice di bandire tutte le sue lagnanze e le sue accuse, e di gettare umilmente, in silenzio, con sottomissione volontaria, il suo mantello profetico sulle spalle d’un altro. Tutto questo è molto istruttivo. Il silenzio di Elia, dopo aver udito parlare dei settemila, è notevole. Aveva imparato ciò che il monte Carmel non aveva potuto insegnargli, ciò che né Sarepta, né il Kerith gli avevano insegnato. In quei luoghi, egli aveva imparato molte cose concernenti Dio e la sua verità, ma sull’Horeb aveva compreso la propria piccolezza, e la conseguenza di questo insegnamento ricevuto fu che egli scendesse dal monte e trasmettesse il suo ufficio ad un altro.

Elia è ancora incaricato di un messaggio di giudizio per Achab, nella vigna di Naboth (cap. 21) e d’un messaggio analogo per Achazia sul suo letto di malattia; poi abbandona la terra, lasciando l’opera che ha incominciato fra altre mani che devono proseguirla. Come Giovanni Battista che era venuto nello spirito e nella potenza di Elia, egli era felice d’introdurre il suo successore e ritirarsi. Se tutti i santi conoscessero meglio questo spirito d’umiltà e di rinuncia, e vedendo l’opera fatta da un altro se ne rallegrassero! Anche il Battista dovette imparare ciò come il Tishbita; dovette imparare a terminare volentieri la sua brillante carriera nell’oscurità d’una prigione, mentre un altro faceva l’opera. Anche Giovanni trovava strano che fosse così, e mandò dei messaggeri a Gesù per chiedergli: «Sei tu colui che doveva venire, o ne aspetteremo un altro?». Come se avesse detto: «È possibile che colui al quale ho reso testimonianza sia realmente il Cristo? È possibile che mi lasci perire, senza curarsi di me, nella prigione di Erode?». Così era, e Giovanni dovette imparare a sottomettersi. Aveva detto entrando nel suo ministerio: «Conviene ch’Egli cresca e che io diminuisca»; ma può darsi che non avesse pensato a un tale modo di «diminuire». Come i pensieri di Dio sono diversi da quelli dell’uomo! Giovanni, dopo aver compiuto una missione importantissima, quella d’introdurre il Figliuol di Dio sulla terra, era destinato ad aver la testa tagliata su richiesta d’una malvagia donna.

Era lo stesso per Elia il Tishbita. Senza dubbio la sua carriera era stata delle più brillanti: era passato dinanzi agli sguardi d’Israele in tutta la dignità e la maestà d’un uomo celeste, d’un messaggero celeste; la verità divina era uscita dalle sue labbra, e Iddio l’aveva altamente onorato nella sua opera. Tuttavia, da quando cominciò a pensare a sé come a qualcuno importante, da quando disse: «Sono stato mosso da una gran gelosia per l’Eterno... e sono rimasto io solo», il Signore gli insegnò che sbagliava e gli ordinò di stabilire il suo successore.

Ci sia concesso d’imparare ad essere realmente umili e pieni di rinunzia di noi nel nostro servizio, qualunque esso sia. E quand’anche il nostro ministerio fosse senza frutto, e noi fossimo disprezzati e respinti, ci sia dato di guardare in avanti, al fine ultimo, ove tutte le cose saranno manifestate. È ciò che faceva il nostro adorabile Maestro. Egli aveva lo sguardo fisso sulla «gioia che gli era posta dinanzi» e non si curava dei pensieri degli uomini. Non si lagnava di quelli che lo rigettavano, lo disprezzavano e lo crocifiggevano, e non li accusava. Una delle sue ultime parole sulla croce fu: «Padre, perdona loro». Maestro benedetto, concedici una più grande misura di quello spirito di dolcezza, d’amore, di grazia e di perdono! Insegnaci ad assomigliarti e a camminare sulle tue orme attraverso questo povero mondo.

Vi erano in serbo per Elia delle cose molto belle. Si era lasciato andare alla violenza; si era nascosto in una spelonca, donde aveva fatto intercessione contro a Israele; aveva impazientemente desiderato d’essere ritirato dalla carriera di prove a cui era stato sottoposto, e di conseguenza aveva potuto anche vedersi chiamato a lasciare il suo posto; nondimeno, l’Iddio d’amore aveva verso lui dei pensieri di grazia, che non avrebbero mai potuto salire nel suo cuore. Com’è prezioso e benedetto lasciare a Dio la cura di adottare i suoi procedimenti nelle sue dispensazioni verso noi! Siamo sicuri che perderemo qualche cosa se vogliamo intrometterci nel modo d’agire di Dio; eppure è sempre stata questa la tendenza dell’uomo. Egli non vuole, ad esempio, permettere a Dio di adottare il suo metodo per salvarlo, ma vuole sempre intervenire nel piano meraviglioso della redenzione; e anche quando, per l’efficacia dello Spirito Santo, si è sottomesso alla giustizia di Dio, pretende sempre di nuovo, nonostante le esperienze ripetute che fa della sapienza superiore di Dio, di cercare di intervenire nel metodo di disciplina e di condotta di Dio, come se potesse, meglio di Dio, disporre le cose in modo favorevole per sé. Che presuntuosa follia! Per i primi, i risultati ne saranno la perdizione eterna; per gli altri, la privazione attuale della benedizione legata ad una maggior conoscenza ed esperienza del carattere e delle vie di Dio.

Se Elia fosse stato esaudito, quanto avrebbe perduto! Come era meglio essere rapito in cielo in un carro di fuoco, piuttosto che essere ritirato da questo mondo in uno scatto d’impazienza!

«Or quando l’Eterno volle rapire in cielo Elia in un turbine, Elia si partì da Ghilgal con Eliseo» (2 Re 2:1). Uscirei dal quadro di questo scritto, se mi fermassi sulle circostanze dell’introduzione d’Eliseo nell’ufficio profetico, sulla sua lentezza, dapprima, a seguire Elia, e, più tardi, sul suo rifiuto positivo a lasciarlo. Lo vediamo ora che accompagna Elia da Ghilgal a Bethel a Gerico, e da Gerico al Giordano. Tutti luoghi celebri nella storia d’Israele.

Bethel era il luogo ove Giacobbe aveva visto la scala mistica appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, bella e giusta espressione dei disegni futuri di Dio relativamente alla famiglia celeste e alla terrestre. In questo luogo Giacobbe dovette ritornare, per ordine espresso di Dio, dopo che si fu purificato dalle contaminazioni di Sichem (Genesi 35:1). Bethel era dunque un luogo profondamente interessante per il cuore d’un Israelita. Ma, ahimè! era stato contaminato. Il vitello di Geroboamo aveva realmente fatto dimenticare i principi sacri di verità insegnati dalla scala vista da Giacobbe; questa innalzava lo spirito dalla terra al cielo — portava l’obbrobrio d’Egitto di sopra al suo popolo; là i figliuoli d’Israele avevano celebrato la prima pasqua nel paese di Canaan e si erano saziati col grano del paese.

Ghilgal era un punto di adunata per Giosuè e per i suoi soldati. Di là uscivano con la forza dell’Eterno per riportare gloriosi trionfi sui loro nemici, e là ritornavano per dividere il bottino di guerra. Così Ghilgal era un luogo caro ad ogni Israelita; un luogo di santi ricordi. Tuttavia aveva anch’esso perduto tutta la realtà. L’obbrobrio d’Egitto era di nuovo sopra Israele. I principi di un tempo in relazione con Ghilgal avevano perduto il loro imperio sui cuori del popolo di Dio. Bokim (il luogo delle lagrime) aveva ormai da molto tempo sostituito Ghilgal per Israele, e Ghilgal era diventato una forma vuota, con l’antica austerità, senza dubbio, ma senza virtù, poiché Israele aveva cessato di camminare nella potenza della verità, che Ghilgal insegnava.

Era nella città di Gerico che gli eserciti dell’Eterno, sotto il loro valente capitano Giosuè, avevano riportato la loro prima vittoria nel paese della promessa, e manifestato la potenza della fede. Era stata una vittoria di Dio.

Infine, quanto al Giordano, fu là che Israele aveva avuto una manifestalzione meravigliosa della potenza dell’Eterno, in relazione con l’arca della Sua presenza. Il Giordano era il luogo dove, in figura, la morte era stata vinta dal potere della vita; il fiume si era prosciugato per lasciar passare gli Israeliti, e sul suo fondo e sulle sue rive c’erano i trofei della vittoria sul nemico, rappresentati dai mucchi di dodici pietre.

Così questi vari luoghi: Bethel, Ghilgal, Gerico e il Giordano erano profondamente interessanti per il cuore d’un vero figlio d’Abrahamo; ma la loro efficacia e il loro significato erano andati perduti; Bethel era solo più di nome la casa di Dio; Ghilgal non era più apprezzata come il luogo ove l’obbrobrio d’Egitto era stato tolto di sopra al popolo. Le mura di Gerico, che erano state distrutte, erano riedificate. Il Giordano non era più considerato come la scena della potenza dell’Eterno. Insomma, tutti questi luoghi erano diventati pure forme senza potenza; e anche al tempo di Elia il Signore avrebbe potuto, riguardo a queste cose, rivolgere al suo popolo le severe parole del profeta Amos: «Perché così parla l’Eterno alla casa d’Israele: Cercatemi e vivrete! Non cercate Bethel, non andate a Ghilgal, non vi recate fino a Beer-Sceba; perché Ghilgal andrà sicuro in cattività, e Bethel sarà ridotto a niente. Cercate l’Eterno e vivrete» (Amos 5:4-6). C’è qui un’importante verità per tutti quelli che sono propensi ad attaccarsi a forme antiche. Questo passo ci insegna che nulla sussisterà se non la divina realtà d’una comunione personale con Dio.

Il nostro profeta attraversa dunque questi luoghi nell’energia e nella dignità d’un uomo celeste. Il suo destino era al di là e al disopra di tutti questi luoghi. Elia cerca, più volte, di lasciar indietro Eliseo, mentre si affrettava sulla via che doveva far capo al cielo; ma Eliseo s’affeziona a lui e lo accompagna, per così dire, fino alla porta dei cieli, e reprime l’inquieta curiosità dei suoi fratelli meno intelligenti con le parole: «Tacete!».

Elia va avanti con la forza della sua missione celeste: «L’Eterno mi manda», egli dice, e in obbedienza all’ordine divino passa per Ghilgal, Bethel, Gerico e il Giordano, lasciando dietro a sé tutte quelle antiche orme e quelle località sacre, che non avrebbero potuto attirare gli affetti di tutti quelli che non erano, come Elia il Tishbita, trasportato in avanti da una speranza celeste. I figli dei profeti potevano fermarsi a queste cose, che risvegliavano forse in loro molti ricordi sacri; ma per colui il cui spirito era occupato del pensiero del suo rapimento in cielo, le cose della terra, per quanto sacre e venerabili potessero essere, non gli presentavano nessuna attrazione. Il suo oggetto era il cielo, e non Bethel o Ghilgal. Stava per lasciare la terra e tutte le sue faticose scene; stava per lasciare dietro a sé Achab e Izebel, per giungere al disopra della regione dei patti abbandonati, degli altari demoliti, e dei profeti uccisi dalla spada; per passare, cioè, al di là delle oscurità e dei dolori, delle prove e delle delusioni di questo mondo burrascoso; e non per la via della morte, ma in un carro celeste! La morte non doveva avere potenza contro quell’uomo celeste. Senza dubbio, il suo corpo fu cambiato in un batter d’occhio poiché «la carne e il sangue non possono eredare il regno di Dio, né la corruzione eredare l’incorruttibilità»; ma la morte non ha alcun potere su di lui; è piuttosto come un vincitore che sale sul suo carro trionfale, ed entra così nel suo riposo. Uomo felice! Per lui il combattimento era finito, la corsa terminata, la vittoria sicura. Egli era stato straniero quaggiù, in contrasto con gli uomini del mondo, ed anche in contrasto con parecchi figli del regno. Era uscito dai monti di Galaad con i fianchi cinti, come un testimone fedele di Dio, per rendere una severa testimonianza contro l’andazzo di vita d’un mondo professante. Non aveva né dimora, né luogo di riposo quaggiù, ma come straniero e viaggiatore correva innanzi verso il riposo celeste.

Dal principio alla fine, la carriera d’Elia fu una carriera unica nella storia. Come Giovanni Battista, egli era una «voce che grida nel deserto», lungi dagli assembramenti degli uomini, e ovunque faceva apparizione, era come una meteora celeste, di cui l’origine e il destino erano ugualmente al di sopra della portata delle idee umane. L’uomo dalla cintura di cuoio non era conosciuto che come il testimone contro il male, il messaggero della verità di Dio. Non aveva nessuna comunione con l’uomo, ma in tutte le sue vie conservava una dignità che respingeva ogni influenza carnale e gli assicurava la venerazione e il rispetto. Era come circondato dalla santa solennità del santuario, in modo che la vanità e la follia non potevano resistere nella sua presenza. Non era,come il suo successore Eliseo, un uomo socievole; il suo cammino fu solitario: «egli venne non mangiando né bevendo». In una parola, fu singolare in ogni cosa: singolare alla sua entrata nella carriera profetica, singolare nel modo in cui ne uscì. Fu una vera eccezione. Il fatto stesso ch’egli non fu chiamato a passare attraverso le porte del sepolcro, basterebbe ampiamente per attirare su di lui una attenzione del tutto particolare.

Ma osserviamo la strada che il nostro profeta percorse, camminando verso la scena del suo rapimento. Egli faceva lo stesso sentiero fatto prima, ma in senso contrario, da Israele. Israele aveva camminato dal Giordano a Gerico, ma Elia camminava da Gerico al Giordano. Poiché il Giordano era il fiume che separava il deserto dal paese promesso, il profeta lo attraversò, lasciando così Canaan dietro di sé. Il suo carro lo incontrò non nel paese, ma nel deserto. Il paese era contaminato e doveva presto essere purificato da quelli che vi avevano introdotto la contaminazione. Icabod (cioè, senza gloria) doveva essere scritto su tutto. Perciò il profeta lo lascia e passa nel deserto, indicando così alle menti spirituali che nulla rimaneva per degli uomini celesti se non il deserto e il riposo di lassù. La terra non doveva più essere il luogo del riposo o la parte dell’uomo di Dio; essa era contaminata. Le acque del Giordano erano state divise per permettere ad Israele di passare dal deserto a Canaan; saranno ora divise per permettere ad un uomo celeste di passare da Canaan al deserto, ove lo attendeva il carro di fuoco, pronto a trasportarlo dalla terra al cielo.

Le cose terrene e le speranze terrene erano bandite dallo spirito di Elia; aveva imparato la totale vanità delle cose di quaggiù, e non gli rimaneva che guardare al di là di queste cose. Qui la morte aveva perso il suo «pungiglione», il sepolcro non aveva vittoria. Elia, sulla sabbia del deserto, ebbe il privilegio di guardare direttamente lassù, e senza essere ostacolato dalle circostanze umilianti della malattia e della morte, di vedere il cielo aperto per riceverlo. Fu esente, riguardo alla sua dipartita, da tutte le circostanze penose che sono la sorte dell’umanità scaduta.

Era felice di lasciar cadere a terra il suo mantello di profeta, mentre saliva al cielo. Lasciava dietro a sé, è vero, un uomo che l’aveva apprezzato e che avrebbe sentito la sua mancanza, un uomo che, contemplando il suo miracoloso rapimento, esclamerà: «Padre mio, padre mio! Carro d’Israele e sua cavalleria!». Eliseo aveva detto all’inizio: «Che io baci, ti prego, mio padre e mia madre»; ma presto questo profeta sarà al di sopra di questi affetti naturali. Le cose umane non conteranno più per lui. Che posizione! È la sola posizione che ogni uomo celeste dovrebbe occupare. Il mondo e la terra non hanno più alcun diritto sull’uomo che crede in Gesù. La croce ha spezzato tutte le catene che l’avvincevano precedentemente alla terra. Come il Giordano separò Elia da Canaan e lo condusse nel deserto incontro al carro dell’Eterno, così la croce ha introdotto il credente sopra un terreno del tutto nuovo, lo ha messo nelle reali circostanze del deserto, lo ha posto dall’altro lato della morte, non avendo altro oggetto davanti a sé che il suo rapimento all’incontro col Signore nell’aria.

Tale è la parte reale, incontestabile di ogni credente, per quanto debole ed ignorante egli sia. Ma quando si tratta di farne la felice esperienza pratica, le cose cambiano. Per giungere a realizzarle, bisogna essere molto soli con Dio, bisogna che conosciamo l’esercizio frequente del giudizio di noi stessi. La carne e il sangue non possono mai essere condotti a comprendere il rapimento d’un uomo celeste. Infatti, vediamo che neppure i figli dei profeti lo comprendevano, poiché dicevano ad Eliseo: «Ecco qui fra i tuoi servi cinquanta uomini robusti; lascia che vadano in cerca del tuo signore, se mai lo Spirito dell’Eterno l’avesse preso e gettato su qualche monte o in qualche valle». Essi non potevano concepire che fosse stato trasportato in cielo sopra un carro di fuoco. Si fermavano alle cose della terra e non avevano un senso spirituale sufficientemente esercitato per comprendere ed apprezzare una verità così gloriosa. Eliseo cede alla loro insistenza, ed essi imparano qual é la follia dei loro pensieri. I cinquanta uomini coraggiosi non poterono trovare in nessun luogo il profeta rapito! Se n’era andato, e occorreva una tutt’altra forza di quella della natura per seguire la sua stessa via. «L’uomo animale (cioè naturale) non riceve le cose dello Spirito di Dio,... e non può comprenderle. perché si discernono spirituamente». Ma quelli che camminano per lo Spirito comprenderanno il privilegio del profeta Elia d’essere liberato dalla soggezione alla morte e d’essere introdotto in modo così glorioso nel suo celeste riposo.

Questa fu la fine della carriera del nostro profeta. Gloriosa fine! Chi non direbbe: «La mia fine sarà simile alla sua?» Benedetta sia la grazia che ha condotto il Figliuol di Dio, il Principe della vita, a scendere dal seno della gloria nei cieli, per sottomettersi alla morte ignominiosa della croce. Fu in virtù di questo che anche Elia fu esentato dalla penalità del peccato e autorizzato a passare nelle regioni della luce e dell’immortalità senza aver risentito neppure l’odore della morte. Come dovremmo adorare questo amore, caro lettore cristiano!

La vita di Elia il Tishbita magnifica grandemente la grazia di Dio, e confonde la sapienza del nemico. Il rapimento di un credente al cielo è uno dei frutti più preziosi e dei risultati più magnifici della redenzione. Salvare un’anima dall’inferno è un’opera gloriosa, un superbo trionfo; risuscitare il corpo d’un fedele addormentato è una manifestazione della grazia e della potenza divina; ma prendere un uomo vivo, in tutto il vigore e l’energia della sua esistenza naturale, e trasportarlo dalla terra al cielo, è uno spiegamento ammirevole della potenza di Dio e del valore della redenzione.

Le nostre riflessioni sulla vita e sull’epoca del nostro profeta potrebbero naturalmente terminare qui. Tuttavia vi è una scena particolare in cui egli appare nel Nuovo Testamento, e se non la considerassimo un momento, il nostro studio su quest’uomo di Dio sarebbe incompleto. Alludo alla scena del monte della trasfigurazione, in cui Mosè ed Elia apparvero in gloria, conversando col Signore Gesù Cristo sulla «dipartenza ch’Egli stava per compiere a Gerusalemme» (Luca 9:31). Il Signore Gesù aveva preso con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li aveva condotti su un alto monte per manifestar loro l’aspetto della sua gloria futura, con lo scopo di fortificare i loro cuori in vista delle circostanze critiche per le quali sia Lui, sia loro, dovevano passare. Che compagnia su quel monte, in quel momento! Il Figliuol di Dio, il cui vestito era d’un biancore sfolgorante, Mosé, tipo dei santi che si sono addormentati in Gesù, Elia, tipo dei santi tramutati, alla venuta di Cristo per prendere la Chiesa, e Pietro, Giacomo e Giovanni che son chiamati le «colonne della Chiesa»! È evidente che l’intenzione del Signore era di preparare i suoi apostoli alla vista delle sue sofferenze, mostrando loro come «un campione» delle glorie che dovevano seguirli. Egli vedeva la croce, con tutto il suo corteo di orrori, dinanzi a sé; poco prima della sua trasfigurazione aveva detto ai suoi discepoli: «Bisogna che il Figliuol dell’uomo soffra molto, e sia rigettato dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e sia messo a morte, e che risusciti tre giorni dopo». Ma prima d’entrare in quelle terribili sofferenze, volle mostrare a tre di loro qualcosa della propria gloria.

La croce è in realtà la base di tutto. La gloria futura di Cristo e dei suoi santi, la gioia d’Israele ristabilito nel paese di Canaan, l’affrancamento di tutte le creature dalla schiavitù della corruzione; tutto si rifà alla croce del Signore Gesù Cristo. I suoi dolori e le sue sofferenze hanno assicurato la gloria della Chiesa, la restaurazione d’Israele e la benedizione di tutta la creazione. Non v’è dunque da stupirsi che la croce sia il soggetto della conversazione fra Cristo e i suoi compagni nella gloria. Essi parlavano della morte che Egli stava per compiere in Gerusalemme. Tutto dipendeva da questo grande fatto. Il passato, il presente e l’avvenire; tutto si basava sulla croce, come sopra un fondamento immortale. Mosè poteva vedere e riconoscere nella croce ciò che metteva da parte la legge con i suoi riti e le sue cerimonie, che erano soltanto delle ombre; Elia vedeva e riconosceva nella croce ciò che poteva dare efficacia a tutta la testimonianza profetica. La legge ed i profeti mostravano la croce come fondamento della gloria futura. Com’era dunque profondamente interessante il soggetto di quella conversazione sul monte della trasfigurazione, in mezzo alla «gloria magnifica»! Era un soggetto interessante per la terra, interessante per il cielo, interessante per l’immensa creazione di Dio. Esso forma il centro di tutti i consigli, di tutti i decreti divini; concilia, in una santa armonia, tutti gli attributi di Dio; fonda e salvaguarda, su dei principi immutabili, la gloria di Dio e la pace del peccatore; su di esso si può leggere, scolpito in caratteri incancellabili: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce».

Mosè ed Elia sono ritornati al loro riposo, mentre il loro adorabile Signore doveva ridiscendere nel pieno del combattimento ed incontrare la croce in tutta la sua spaventevole realtà. Ma essi sapevano benissimo che tanto Lui che loro si sarebbero incontrati ancora in mezzo ad una gloria che non sarà mai offuscata da una nube, una gloria di cui l’Agnello sarà per sempre la sorgente e il centro, e che brillerà d’uno splendore eterno, mentre tutte le glorie umane e terrene saranno oscurate dalle ombre d’una notte eterna.

Ma che cosa facevano i discepoli durante questa meravigliosa conversazione? Dormivano! Dormivano mentre Mosè ed Elia s’intrattenevano col Figliuol di Dio sulla sua croce e sulla sua passione. La povera natura umana può dormire anche in presenza della magnifica gloria! «E quando si furono svegliati, videro la sua gloria, ed i due uomini stavano con lui. E come questi si partivano da Lui, Pietro disse a Gesù: Maestro, egli è bene che stiamo qui; facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, ed una per Elia; non sapendo quel che si dicesse» (Luca 9:30-33). Senza dubbio, era bello essere là; molto più bello che discendere da quella gloria per incontrare di nuovo tutte le contraddizioni e la complicità degli uomini. Quando Pietro vide la gloria, e Mose ed Elia, si presenta subito al suo spirito di giudeo il pensiero che nulla poteva impedire la celebrazione della festa dei Tabernacoli. Egli aveva dormito, mentr’essi parlavano della «morte», aveva ceduto alla natura, mentre le sofferenze del suo Maestro erano il soggetto dei loro discorsi; e quando si sveglia, non vede nulla di meglio che piantar la sua tenda in mezzo a quella scena di pace e di gloria, sotto i cieli aperti. Ma, ahimè, non sapeva quel che andava dicendo. Quell’atmosfera di gloria non era che un istante passeggero. Gli ospiti «celesti» si allontanavano; il Signore Gesù doveva essere dato nelle mani degli uomini! Doveva passare dal monte di gloria a quello delle sofferenze, e Pietro stesso doveva ancora essere vagliato da Satana, essere profondamente umiliato e straziato sotto il rimorso di una vergognosa caduta, e, alla fine, essere «cinto da un altro» e condotto ove non avrebbe voluto.

Un lungo ed arido periodo, una buia notte di sofferenza e di tribolazione, aspettava la Chiesa; gli eserciti di Roma avrebbero calpestato la santa città e devastato i suoi baluardi; i fulmini della guerra e delle rivoluzioni politiche sarebbero ancora caduti, con terribile violenza, su tutto il mondo civilizzato. Tutte queste cose, e ben altre ancora, dovevano accadere, ed accadranno in un prossimo futuro, prima che il pensiero che il povero cuore di Pietro accarezzava, possa davvero realizzarsi sulla terra.

Il profeta Elia deve di nuovo visitare questo mondo «prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole», come dice il profeta Malachia (4:5). Anche Gesù ha detto ai suoi: «Certo, Elia deve venire e ristabilire ogni cosa» (Matteo 17:11). In Giovanni Battista era già venuto e non era stato riconosciuto. Il Signore aveva in vista i raggi risplendenti del mattino del Millennio, un mattino e «senza nuvole» che illumina i colli da lontano. Tutto, attorno a noi, dice che il regno glorioso di Cristo è vicino. Ma noi guardiamo al cielo e con gli occhi della fede contempliamo, durante il nostro passaggio quaggiù, il riposo e la gloria futura, l’eternità con le sue realtà divine e gloriose. Sentiamo il mare che muggisce con le sue onde in burrasca, vediamo le nazioni turbolente, i troni abbattuti, ma tutte queste cose hanno una voce per le orecchie dei credenti, e questa voce dice: «Levate gli occhi in alto». Chi ha ricevuto lo Spirito ha ricevuto la caparra della sua eredità futura; e la caparra, noi lo sappiamo, è una parte di ciò che si dovrà possedere.

Rendiamo grazie a Dio, ogni giorno, del fatto che le nostre speranze non sono limitate al triste orizzonte di questo mondo, ma abbiamo una dimora al di là e al di sopra di tutta questa scena!

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